Maggio Musicale Fiorentino, stagione teatrale 2002 / 2003
Nekrosius con Macbeth debutta come regista lirico
Hamletas, regia di Eimuntas Nekroðius
Vulcani appuntiti di latta e odore di bruciato, strutture piramidali fumanti, tende
Sioux o bare, loculi, sarcofagi o Vergini di Norimberga nel gioco di un giogo
che traina, trascina, sposta e muove il mondo. La visione onirica del Faust
di Goethe, in lituano per la regia di Eimuntas Nekrosius, cinquantacinquenne artista di Vilnuis, è d’impatto
visivo, anche un gigantesco osso da “2001 Odissea nello spazio”
nel secondo atto, e sonoro, con il cacciatore che spara rumoroso ai piattelli
olimpionici. La puzza di zolfo di cerini sfiammatisi si mischia con la fatica
del mondo di quest’Atlante-Dio accompagnato dal folletto salterino,
Puk malefico, “scimia” emmadantesca. Già nel 2004 il Met
ospitò uno splendido “Faust” per la regia di Claudio Parmigiani.
Per coraggiosi, e sonnambuli, è il ritorno del maestro lituano, già a Prato
alcune stagioni passate con l’Hamletas o l’“Otello” ed al Maggio con il “Boris Godunov”.
Atmosfera da evento, da “io c’ero” anche se i palchi sono deserti. La sua piece è
un lungo abbraccio in tre atti e quattro ore complessive con sovratitoli. Una regia accurata e dettagliata fino allo
spasmo, fino alla perfezione stilistica dove ogni tassello, da ideologia
tipicamente dell’Est, combacia in un meccanismo ben oliato e armonico, la
tecnica prende il sopravvento in un puzzle rigido. La scenografia è futurista,
al limite della metafisica. Faust, il contrario di infausto quindi giusto e favorevole, è un Piccolo
Principe curioso, un angelo caduto nel fango con le ali sporche di catrame che
non riesce a riprendere il volo, è un Cristo solo e svuotato d’ogni parentela,
è Dorian Gray senza ritratto, è
Adamo cacciato, è il teschio di Amleto. Faust è
Lucifero che vaga nel nero. “In questo buio mi sento meno solo”, diceva il Krapp beckettiano. Ma il mondo è “un carcere maledetto e
ammuffito” oppresso da ideologie sementi e striscianti governi: la bandiera
rossa gigante sventolata (come ne “Gli uccelli” del nuovo
direttore del Met Tiezzi, alla prima
in platea). Faust vuole arrivare alla conoscenza come Icaro con le sue ali di
cartapesta e cera al Sole, come la
Torre di Babele a Dio mentre le Parche tessono il filo del
tempo in una gigantesca cornucopia di luce, enorme lucciola, lampada di Diogene
che magicamente si trasforma in calice che disseta, Santo Graal
di potere. “Esiste l’uomo felice?”. “Nulla di perfetto sfiora l’uomo”, è questa
la fonte della sua desolante disperazione. Sulla linea di partenza si sfidano
per battere l’incessante tic tac dei secondi, come in pista sui 100 metri con lo starter
che spara il pronti via. Le delimitazioni si mutano in corsie di piscina, si muovono come
la Linea della Lagostina (proprio in questi giorni è deceduto il suo
autore Osvaldo
Cavandoli), sfociano in un campo elettromagnetico. E mentre le pagine dei
libri sventolati diventano ali di gabbiani, mangia le parole dagli scritti e
sembra raccoglierle come semi, come cimici e acari e pidocchi, ingoiando le
lettere a manciate.
Voto
7