Egocentrico, Io?
La guerra piccola
Barber's shop
I Marziani
babbuino Suite
Corsivi
Cominciamo dalla fine. Col trucco
sfatto, segnato dal rimmel. “Sembri Carmelo
Bene”, gli dice una signora. Severi ride. E quando ride strizza gli zigomi
che gli fanno gli occhi stretti come la fessura di una saracinesca che sta per
chiudersi. Pane e
tulipani. Si sente inorgoglito dall’accostamento, dal paragone che accoglie
con pudore. Ma ad Alberto non piacciono i riferimenti, soprattutto se si parla
del trucco e non della sostanza.
Severi non è un
autore scomodo. Ma neanche accomodante. Non piega la testa, non cerca il
consenso. Lo trova. Sfoderando quello che è l’altro lato dell’impettito ed
imperturbabile giornalista televisivo. Aplomb british, dizione perfetta in
video. Da qualche tempo ha rotto gli argini. Si è lasciato andare. Non solo
autore. Anche sul palco. Non ha più avuto timori. Non si preoccupa di piacere a
tutti. E’ uno dei pochi che riesce a mettere nero su bianco la Firenze d’oggi, ma senza
provincialismi con quello sguardo al contempo distaccato da cronica ed
interiore dell’innamorato della propria città. E i due aspetti fanno attrito. Chi
ha troppo amore alla fine è molto, troppo, critico. Ecco Severi è critico ma
non cinico. E’ il pettine che cerca il nodo, non per scioglierlo che non ha alcuna velleità di Salvatore della Patria né di
Sindaco futuribile da primarie né di demagogo per scaldare la piazza, ma almeno
per mostrarlo, con ironia pungente e sagacia fine, per metterlo sotto la lente
d’ingrandimento, per sottolinearlo, portare la carcassa sulla riva. Che ridere
dei problemi è già un primo passo per poterli affrontare. Usa il fioretto e i
suoi “Corsivi” per pungere il proprio mondo. Colpisce il teatro giù dal palco
mostrando la varia umanità che lo frequenta, i tossitori di professione, la pomposità del Festival
del Fitness o quello della
Creatività, tutti muscoli e poco cervello. Non ha paura Severi di toccare
il mostro sacro di Benigni che tutti continuano ad elogiare e consacrare a
livello di Visnù per rimanere, nell’ombra della massa, sul carro
dei vincitori, senza poi, alla fine, vincere niente. Regala stoccate alla
politica locale (se dall’amministrazione comunale qualcuno si degnasse di
venire a sentirlo) con un ritratto di un assessore ignorante ma di un’ignoranza
semplice da apparire tuttologo davanti ai punti interrogativi e ai buchi neri
della conoscenza riuscendo sempre a trovare, arruffone e ciarlatano senza saper
di esserlo, una risposta, una a caso, la prima che gli viene in mente senza riconoscere
la propria impreparazione ma con il certo sospetto che sia vera e a prova
d’errore. Come separè tra una “stanza” e l’altra, cartelloni da ring con
scritte curvilinee che ricordano le Comiche in bianco e nero. Ha il gusto
dell’iperbole e del paradosso che fanno del suo un cabaret arguto colmo di
rimandi ad una cultura alta da salotto, ma con il lampredotto fumante in mano,
smoking e intercalare greve, ché Firenze è una bella donna, sempre nuda, con il
culo all’aria. E all’asta. Il discorso si dipana argomentandosi ed aggrovigliandosi
concedendo il gusto estetico della parola stessa slegata al suo significato, ma
ricondotto ad una lucida assonanza, che diventa danza di suoni da ascoltare
come nella scena “Wow”, dei giovanilismi, dei neologismi da slang importato
d’oltreoceano, degli inglesismi dei quali rimbomba e cola la città, che ha un
ritmo orgasmico, quasi orgiastico per il piacere pieno dell’accavallarsi, come
gambe di soubrette, dei termini. Severi è uno degli ultimi paladini della
fiorentinità. Una voce fuori dal coro. Un inno, quello americano, ci
seppellirà.
Voto
7