C’è
come un’idea di sporco che traspare, che infanga, che travalica le
quattro opere del secondo step dell’Alveare di Contemporanea. Ma
possiamo allargare il miraggio anche ad altre composizioni giovani.
C’è un sentore, nell’aria, nella società, e quindi
anche nel teatro, di passaggio ad osmosi tra lo sporco, i detriti, la polvere,
le macerie, interne e quelle effettivamente reali e presenti, materiali e
metaforiche, che dal fuori cercano strade per l’interno. E le trovano,
anche. Ed allora l’olio sulla pelle di Luisa Cortesi (“
Eskaton”) che imbriglia un corpo in una viscidezza che epura gli altri abbracci, che la esula e la
emargina al contatto in un senso di impropria lucidità, in un alone di
diversità e di squagliamento, con un vestito che da lontano appare bello
e colorato e che, col tempo, con la vita, con il movimento, si sfalda, si
disunisce, si scolora, si imbroglia, si sgualcisce in un unico patchwork
astratto di manate d’arcobaleno. La perfezione si sbriciola, oppure si
può scorgere soltanto da lontano, soltanto in un fotogramma
d’immagine, quindi ipocrita, finto, fasullo, volutamente fallace. La vita
è una pellicola, non una fotografia. In questo quadro (e qui parlare di quadri
è azzeccato visto l’amore dichiarato e palese per il Giorgione)
gli Anagoor
(“How much fortune
can we make”), ed il
loro attore modello in miniatura, prima tagliano l’opera rendendola
vulnerabile, anche accessibile, toccabile, ed inutilizzabile per la pura e sola
visione estetica proprio perché rovinata, e scavandone a fondo fino a
ricavarne polvere d’oro. Dietro la cultura ci sta sempre anche il
guadagno, che sia cerebrale oppure fruttifero. L’uomo qui diventa una
grande pepita distesa su un tavolaccio da obitorio d’artigiano aspettando
di essere scoperto, analizzato e riportato alla luce. Sporcano il terreno anche
le Korekanè
(“Primo frammento di un quotidiano disfatto”) in una danza
reiterata e stancante e sfibrante di tacchi a spillo in un vortice da gioco
dell’oca ad inseguimento senza prendersi. Lo sporcano con messaggi
lasciati al destino, come fogli nelle bottiglie sull’oceano, sillabe
concesse ad un altro inquilino del quale se ne nota la presenza dai segni di
gesso nero, come graffitari urbani, come uomini primitivi nelle caverne, ma del
quale non se ne conoscono i tratti. Scritte, poesie, frasi lasciate prima ad
adornare di significato il gesto dell’attesa circolare, di quella corsa e
piedi veloci per raggiungere nuovamente lo scopo fino alla violenza della
cancellazione rabbiosa dell’altrui pensiero, perché
insopportabile, perché insostenibile, come annullamento della persona
stessa. La censura uccide le persone, non soltanto le parole. Pugni, sacco e
molto sudore, perché tirando di boxe ad un nemico che non si vede (non
è che non esiste, però!), perché coperti e nascosti da
maschere scimmiesche, forse per piacere di più, sporcano e affaticano la
ricerca della felicità (no, non è Muccino con Will Smith,
tranquilli) azzoppata e trascinatasi nella ricerca (stavolta più
convincenti sia rispetto al Premio Scenario “Pink, me and the roses” che ad “Un secco Nord”) dei Codice Ivan (“Gmgs/(andi)amo avanti”). Una soglia che si sposta senza
farsi raggiungere, acchiappare. Inutile dire qui che la precarietà
forgia e forma il pensiero e struttura anche queste nuove linee che sono
più di sopravvivenza, di aiuto. Grida sorde e mute che paiono senza
soluzioni. Il futuro è ancora nero. Il cielo non è blu. Anzi,
cieli neri su di noi di bluvertighiana memoria.
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