Giorgio Albertazzi, Antonio Latella, Moby Dick, 2007, presentazione
Giorgio Albertazzi, Antonio Latella, Moby Dick, 2007, recensione
Mille fastidiosi colpi di tosse
da lazzaretto contagioso per l’apertura del Manzoni di Pistoia. Fornire uno
spray per la gola all’entrata sarebbe necessario. O, al limite, un po’
d’educazione. L’ultima fuga da inseguire, assieme alla giovinezza, è
l’infinitezza che naviga a vista sul fondo, il grande mostro che fa capolino,
chiamala coscienza, tra gli abissi e la ragione perduta. “Moby Dick” (alla Pergola di Firenze dal 23 al 28) è mare
come metafora. L’oceano è la grande distanza incolmabile, il passaggio ultimo, chiamalo
morte, l’ultima battaglia prima della nuova genesi rigenerante. E la vendetta
si pacifica e, dopo la tempesta dell’esistenza, si fa quiete leopardiana. “Il
vecchio e il mare” di Hemingway.
Latella, che già recitò nel Moby Dick con Gassman
padre e figlio, rinverdisce l’epopea del capitano zoppo Achab, un grande Albertazzi pieno nella parte che entra
in gioco dopo cinquanta minuti, e del giovane, passaggio di consegne, Ismaele,
Marco Foschi (“Fame chimica”). Oceano mare: né giapponesi né norvegesi né Greenpeace.
Geppetto e Pinocchio. Achab, Caronte che porta in mare aperto la propria
carcassa nella punizione-pentimento definitivo, Ulisse senza più porto, ha
perduto, come Capitan Uncino la mano ad opera del coccodrillo, una gamba nella
lotta con la balena perché “corteggiare l’acqua senza finirci dentro” è
impossibile. E nell’impianto di Melville (splendido anche il suo racconto, poco
conosciuto, “Lo scrivano
Bartleby”) Latella
inserisce azzeccati stralci dall’Inferno di Dante, “Lasciate ogni speranza voi
ch’entrate”, o dall’Amleto shakespeariano, “Essere o non essere”. Il gruppo di
balenieri, tra ironia e bastone, ricordano Alex e soci in “Arancia meccanica”,
macellai filosofi della giustezza dello scontro, mentre Ismaele di fronte a
loro è Gesù tra i saggi nel tempio fino a scardinarli. Emozionante il muro del
linguaggio dei segni, coreografia gutturale e onomatopeica muta, kata
concettuale di figure e ideogrammi di gesti. L’acqua vitale del grembo materno di
rumori bestiali e ancestrali da sirene accoglie le spoglie nel giro che chiude
il cerchio. In uno studio-scatola illuminata in alto, Achab sta immerso, Gambadilegno
disneyano, dittatore perdente e stanco, tra volumi massicci (tutti “Moby Dick”),
“Faust” e “Fahrenheit”, annegante tra le carte forsennate e disperatissime,
bianco accecante di luce al neon, governa l’impalcatura della scena, telaio di
nave in costruzione, quadrato svedese sul piano inclinato, con vasca centrale, e
orizzontale dove marinai equilibristi, scimmie da zoo, si arrampicano, larve
nel legno traforato, ginnasti da “Medea”. Assolutamente
da sfogliare, ed avere, il volume fotografico della produzione.
Voto
8