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  03/05/2024 - 01:33

 

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Scena Verticale
U Tingiutu Un Aiace di Calabria
Ideazione, testo e regia Dario De Luca, con Dario De Luca, Rosario Mastrota, Ernesto Orrico, Fabio Pellicori, Marco Silani, musiche originali Gianfranco De Franco, Gennaro “Mandara”de Rosa

 




                     di Tommaso Chimenti


L’impasto torbido al sapor meridionale straborda come salsa da un panino mangiato con troppa foga, con quella smania di vita che fa collimare l’esistenza alla sua stessa perdita. Chiamala morte. I valori ed i principi, la rispettabilità, la testa alta, la dignità, allineano il lignaggio classicizzante (sicuramente forzatura dei contemporanei) della Magna Grecia a questo Sud che vive di fievoli ricordi sbiaditi tra “uomini d’onore” dove il sangue è il legame più forte. Un Aiace moderno, tinto dalla ed imbevuto nella colpa, Dario De Luca, molto “Scarface”, che dirige anche Scena Verticale in questa nuova produzione segnalata al Premio Riccione, corroso da quel potere-rispetto mai conferitogli, discioltosi nelle recriminazioni e nei presunti torti subiti in ambito familiare in un’analisi a ritroso sui propri trascorsi rapporti edipici conflittuali, assetato di vendetta e affamato di farsi giustizia a tal punto da rapire Ulisse (in una scena che ricorda “Le iene” tarantiniane con un body check otorino da Tyson versus Holyfield) ma, dopo avergli vomitato la sua rabbia disperata lasciarlo ancora libero e vivo, pronto a poterlo colpire a piacimento. In un’atmosfera da “Gomorra” suona il kitsch (“Hamlet”) di un Pupo d’annata. Se Aiace ne esce comunque sconfitto, punendosi con un atto estremo che non rientra nel codice meridionale ma che anzi ricorda l’harahiri orientale, anche Ulisse risulta un personaggio senza nerbo, senza spada, senza parole. Piccoli mafiosi (c’è l’odore di “Acido Fenico” dei Koreja), gangster provinciali che spoetizzano e “ripuliscono”, finalmente, dal mito eroico e d’epopea anche Menelao e Agamennone umanizzandoli, boss caricature di se stessi in continui giochi di forza, sottomissione e zuccherino, gerarchie ritualizzanti tra galli nel pollaio, scontri da capobranco mignon. Ancora bare in scena come in “Pop Star” dei Babilonia Teatro. Il calabrese continua a tagliare, ferire, far male. Ad una prima parte nel segno di una comicità involontaria segue una parte centrale corposa e densa come epo nelle vene di un ciclista in salita. L’intuizione-invenzione della veneziana-tapparella che cala dall’alto a rendere un velo di vedo-non-vedo al pubblico fa da binocolo scannerizzando e segmentando la scena, è un atto d’accusa alla platea-popolo ed alle sue persiane abbassate omertose, a quel senso di liberazione catartica, a quell’alibi del non ho potuto vedere perché la visuale mi era coperta. Chiamala “non è colpa mia”. Le sequenze a flash back prevedono quadri di stampo cinematografico con andate e ritorni, montaggio da celluloide che è quasi un agguato. Il Padrino sta nel tuo stesso pianerottolo.

Voto 7 

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