Scena Verticale
U Tingiutu Un Aiace di Calabria
Ideazione, testo e regia Dario De Luca, con Dario De Luca, Rosario Mastrota, Ernesto Orrico, Fabio Pellicori, Marco Silani, musiche originali Gianfranco De Franco, Gennaro “Mandara”de Rosa
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L’impasto torbido al sapor
meridionale straborda come salsa da un panino mangiato con troppa foga, con
quella smania di vita che fa collimare l’esistenza alla sua stessa perdita.
Chiamala morte. I valori ed i principi, la
rispettabilità, la testa alta, la dignità, allineano il lignaggio classicizzante
(sicuramente forzatura dei contemporanei) della Magna Grecia a questo Sud che
vive di fievoli ricordi sbiaditi tra “uomini d’onore” dove il sangue è il
legame più forte. Un Aiace moderno, tinto dalla ed
imbevuto nella colpa, Dario De Luca, molto “Scarface”,
che dirige anche Scena Verticale in
questa nuova produzione segnalata al Premio Riccione, corroso da quel
potere-rispetto mai conferitogli, discioltosi nelle recriminazioni e nei
presunti torti subiti in ambito familiare in un’analisi a ritroso sui propri trascorsi
rapporti edipici conflittuali, assetato di vendetta e affamato di farsi
giustizia a tal punto da rapire Ulisse (in una scena che ricorda “Le iene” tarantiniane con un body check otorino
da Tyson
versus Holyfield) ma, dopo avergli vomitato la
sua rabbia disperata lasciarlo ancora libero e vivo, pronto a poterlo colpire a
piacimento. In un’atmosfera da “Gomorra” suona il
kitsch (“Hamlet”) di un Pupo d’annata. Se Aiace ne
esce comunque sconfitto, punendosi con un atto estremo che non rientra nel
codice meridionale ma che anzi ricorda l’harahiri
orientale, anche Ulisse risulta un personaggio senza
nerbo, senza spada, senza parole. Piccoli mafiosi (c’è l’odore di “Acido
Fenico” dei Koreja), gangster provinciali che spoetizzano e
“ripuliscono”, finalmente, dal mito eroico e d’epopea anche Menelao
e Agamennone umanizzandoli, boss caricature di se stessi in continui giochi di
forza, sottomissione e zuccherino, gerarchie ritualizzanti tra galli nel
pollaio, scontri da capobranco mignon. Ancora bare in scena come in “Pop Star”
dei Babilonia Teatro. Il calabrese
continua a tagliare, ferire, far male. Ad una prima
parte nel segno di una comicità involontaria segue una parte centrale corposa e
densa come epo nelle vene di un ciclista in salita.
L’intuizione-invenzione della veneziana-tapparella che cala dall’alto a rendere un velo di vedo-non-vedo
al pubblico fa da binocolo scannerizzando e segmentando la scena, è un atto
d’accusa alla platea-popolo ed alle sue persiane abbassate omertose, a quel
senso di liberazione catartica, a quell’alibi del non ho potuto vedere perché
la visuale mi era coperta. Chiamala “non è colpa mia”. Le sequenze a flash back
prevedono quadri di stampo cinematografico con andate e ritorni, montaggio da
celluloide che è quasi un agguato. Il Padrino sta nel tuo stesso pianerottolo.
Voto
7
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