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Il metodo Gronholm
Regia Cristina Pezzoli
La commedia del giovane autore catalano Jordi Galceran. Nicoletta Braschi torna al teatro con Maurizio Donadoni, Enrico Ianniello, Tony Laudario, scene: Giacomo Andrico, Luci: Cesare Accetta
Al Teatro Pacini di Pescia il 28 gennaio 2007

 




                     di Tommaso Chimenti


Quattro persone sono chiuse in una stanza. E’ un vano da sogno, forse da incubo, di quelli tutti sghimbesci e pericolanti, da tunnel degli specchi deformanti al Luna Park, come essere dentro un quadro di De Chirico o in pieno cubismo. Le forme sono irte, spigolose, appuntite così come i dialoghi sono ficcanti, taglienti. C’è il rischio di farsi male. Il tavolo che sembra cadere, la finestra a rombo, il triangolo come parete, il pavimento pendente ed in discesa. Anche le parole, qui, fanno male. E colpiscono, prendono. Non sono quattro persone prese a caso, dalla strada. Sono quattro manager, quelli che muovono il mondo, il mercato, quelli delle tanto odiate multinazionali. Chiusi in uno stesso loculo con l’occhio del Grande Fratello puntato a sezionare occhiate, registrare nervosismi, sottoscrivere atteggiamenti. Tutti sospettano che l’altro faccia parte dell’organizzazione in una caccia all’assassino che ricorda la resa dei conti nei gialli di Aghatha Christie. Comincia il gioco al massacro di accuse, insulti, finti inseguimenti verbali. Il vero può essere finto, il falso può nascondere la verità. La maschera ed il doppio, lo specchio. E’ la psicologia che muove. Chi lacrima forse non piange, chi ride sta soltanto al gioco. Tra i quattro Donadoni è perfetto, duro, burbero, vero figlio di, il dirigente ideale e sadico che passerebbe sul cadavere della madre per il fatturato di fine anno. Non ci sono persone, solo numeri. “Raggiungere gli obiettivi” è la parola d’ordine. Ad ogni costo. E’ spalleggiato da Ianniello, anche traduttore del pezzo spagnolo (dal quale è stato tratto anche un film), e Laudadio, entrambi allenati a pane e Servillo, e si vede. Stereotipo sarebbe adesso dire che l’anello debole è la Braschi. Il suo nome in cartellone sicuramente porterà date e repliche, quindi la sua scelta è stata azzeccata ma sulla scena è un passo indietro gli altri e rincorre sempre, non è decisa nelle battute, a volte s’inceppa, con voce da maestra, senza il phisique du role da donna in carriera. Nell’ottica del pubblico, che comunque alla fine applaude, anche se un po’ moscio, c’è la figura messa in celluloide dal compagno Benigni in venti anni di carriera al suo fianco, da “Johnny stecchino” fino a “La tigre e la neve”. La struttura scenica comunque funziona fino alla fine. Quasi. I colpi di scena, e di spugna, si susseguono come su un ring. Si danno e si prendono. I colpi bassi si sprecano ed ognuno mette in campo la propria acida crudeltà, il cinismo dei vincenti, perché è questo che ci insegna la società dove viviamo, la cattiveria politicamente scorretta dei primi della classe. Non c’è rispetto, né stima, la lealtà è soltanto una parola vuota. L’atmosfera è cupa e noir e ci si aspetta da un momento all’altro una virata pulp o almeno trash che le luci fanno intendere e ammiccare strizzando l’occhio ai brividi alla schiena. Le ultime stoccate però deludono e non risollevano, per l’ultima volta, la piece, sempre in bilico tra la soluzione finalmente trovata ed accessibile ed un nuovo inghippo misterioso da scoprire e studiare. Il finale, troppo moralistico, sembra una lezione da impartire, un contrappasso manageriale post mortem dividendo e separando i buoni dai cattivi, togliendo dal paniere la mela guasta, estirpando la gramigna dall’orto genuino. Ma esistono manager buoni? Sembra una contraddizione in termini. La frase da ricordare: “Noi non cerchiamo una brava persona con la faccia da figlio di buona donna, noi vogliamo un figlio di buona donna che sembri una brava persona”.

Voto 7 ½ 

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