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Dr Frankenstein
Progetto Fabrizio Pugliese
Liberamente tratto dal Frankenstein di Mary Shelley, testo Francesco Niccolini. Con Fabrizio Pugliese e Fabrizio Saccomanno, regia Salvatore Tramacere e Fabrizio Pugliese, scene Iole Cilento, disegno Luci Lucio Diana
Visto ai Cantieri Teatrali Koreja, Lecce, il 10 marzo 2011

 




                     di Tommaso Chimenti


"Costruire muri, costruire ponti” è il contenitore (dal 9 al 12 marzo) all’interno del quale i Cantieri Teatrali Koreja di Lecce (un capannone ristrutturato e rimesso a nuovo, caldo e conviviale di tappeti e divani) hanno presentato le loro ultime produzioni in abbinamento ad incontri, tavole rotonde e convegni con ospiti ed invitati provenienti da tutto il mondo. Le mura non sono di divisione ma più che altro fondamenta, edifici, strutture, case, accoglienze. Il manifesto della manifestazione rappresenta i profili stilizzati di un uomo ed una donna che si guardano collegati da un flusso di idee e di pensiero che dal cervello dell’uno arriva all’altro, passando per la bocca, a formare un utero, tube di falloppio, pronto a dare vita, a far crescere e nascere.
L’inizio del tutto. Qual è l’inizio, il principio delle cose. O, forse, l’inizio della fine. Coincide la vita con la morte? Il Frankenstein di Francesco Niccolini fa surf, ben bilanciato ed in equilibrio, tra il grande gioco delle citazioni di celluloide, la caccia al tesoro cinematografica, e la questione etica ultima. Tra il metafisico ed il materiale. Chiusi in un laboratorio zeppo di macchinari, ferri, catene, alambicchi da alchimista, pompe e ganci, uno scienziato e la sua creatura. Un “Padre nostro” risuona cavernoso e drammatico in tutta la sua potente cantilena liturgica. Padre e figlio. Ma anche Re e Amleto. Oppure Hamm e Clov, il primo in carrozzina, perché l’altro gli ha rotto le caviglie (Misery non deve morire), il “servo” perennemente in movimento, senza tregua, senza pace. Imprigionati l’un l’altro. L’uno è la salvezza e la condanna dell’altro. Fuori, beckettianamente, si ritorna a “Finale di partita”, “non è rimasto più nessuno”. Apocalittico. Ma anche claustrofobicamente pinteriano, “La stanza”. C’è un dentro e c’è un altrove. Fuori, diverso, sconosciuto, che mette ansia. Il tutto è ammantato da una cupezza dickensiana, mentre il padre-creatore potrebbe essere l’orologiaio ebreo dei romanzi di Philip Roth. Le vedute sono buie, le visioni del bunker-prigione in penombra. L’uomo e la bestia. Dottor Jekill. Il Faust. Il saggio e lo scemo del villaggio. Robinson Crusoe e il suo Venerdì. Ma, si sa, l’allievo supera sempre il Maestro. Il medico nazista e la sua sconfinata voglia dell’uomo perfetto, invincibile e invulnerabile. Come nella pellicola Sesso, bugie e videotape, o ne “L’ultimo nastro di Krapp”, il Professore registra, qui con una telecamera, lì erano nastri audio, dichiarazioni per l’ardua sentenza da lasciare ai posteri che verranno. E’ una confessione, quasi un processo pubblico, da tribunale popolare brigatista. Dov’è il limite, il confine etico della creazione. Dall’altro la riflessione si fa più ampia ed apre le porte al concetto di libertà, personale e sociale. Di come la vita, quando inizia, sia già condanna a morte, previsione di fallimento, di caduta, di malattia, di sofferenza. L’esistenza è dolorosa perché porta alla perdita, al naufragio, alla sconfitta. L’uno è il genio, l’altro è la cavia umana goffa e claudicante, sottoposto a scosse elettrificate che ricordano i manicomi e le angherie subite anche da Alda Merini. L’uno è la punizione, la vergogna, il senso di colpa, la costrizione, la contrizione dell’altro. Ma anche la zavorra e l’ancora di salvataggio. La vendetta. Ci si potrebbe rivedere anche la vicenda di Natascia Kampusch, la ragazzina austriaca rapita e tenuta prigioniera in una casa per lunghi anni. La sindrome di Stoccolma porta la vittima ad innamorarsi dell’aguzzino. Sono incatenati in questo luogo-non-luogo, da nessuno assediato. Nel grande cerchio il fool (il puk shakespeariano) si immola e si impala rotondo come l’imperfezione, l’anti uomo vitruviano leonardiano. A questo punto non potrebbe mai andare in sottofondo la sdolcinata “ Father and son” di Cat Stevens. E neanche la struggente “Sarà un uomo” di Luca Carboni. E’ nato prima l’uovo (in scena) o la gallina? Dio ha creato l’uomo o l’uomo ha inventato Dio?

Voto 8 

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