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  29/03/2024 - 08:53

 

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Zoya, la mia storia
Zoya con John Follain e Rita Cristofari
Milano, Sperling & Kupfer, 2002; pp. 209
Un libro-verità sulla drammatica condizione delle donne afghane

 




                     di Paolo Boschi


In Zoya, la mia storia John Follain, corrispondente del “Sunday Times” da Roma, e Rita Cristofari, addetta stampa di varie organizzazioni umanitarie, hanno vividamente reso la testimonianza di Zoya, una giovane afghana militante nella Rawa (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan). La giovane co-autrice di questo libro non si chiama veramente Zoya, ma ha deciso di fregiarsi di questo nome di fantasia nel tentativo di proteggere amici, parenti e conoscenti dalle sicure ritorsioni degli integralisti islamici. Si tratta soltanto di un piccolo dettaglio, ma denso di significato, che arricchisce di una decisa sfumatura di realismo le brutali atrocità, le esecuzioni sommarie, le violenze indiscriminate e le restrizioni sessuali raccontate pagina dopo pagina in Zoya, la mia storia, un libro-verità in cui – dalla prospettiva di una bambina che diventa giovane donna, talvolta incredula, talora perfino incapace di capire a fondo i colori del male – si intrecciano la storia recente dell’Afghanistan, le brutalità commesse in nome del fondamentalismo religioso e spunti di cronaca sul dramma delle donne afghane, costrette a nascondersi dietro il manto dei burqa per evitare stupri ed esecuzioni estemporanee. Zoya è nata a Kabul nel 1978, durante l’occupazione russa, figlia di genitori impegnati attivamente per la libertà del proprio paese, scomparsi nel nulla anni dopo in seguito alla presa del potere da parte dei mujahiddin, un regime totalitario che in breve si dimostrò ancora peggiore della dominazione-ombra esercitata dai Sovietici. La scomparsa dei genitori di Zoya convinse la nonna putativa della giovane autrice a lasciare Kabul, cercando asilo nel campo profughi della Rawa a Pashawar, in Pakistan, dove la nipote poté riprendere gli studi: ad appena sedici anni Zoya decise di ricalcare le orme della madre, entrando con un ruolo attivo nell’organizzazione clandestina della Rawa, al fine di assistere le donne vittime di violenze, documentare gli omicidi commessi in nome del totalitarismo religioso e scrivere articoli di denuncia sulla condizione femminile in Afghanistan. Il rischioso ritorno di Zoya in patria, coinciso con l’avvento al potere dei Talebani, è agevolato dall’odiosa copertura del burqa, simbolo di soffocante imposizione per le donne afghane, ma allo stesso tempo valorizzato positivamente dalle militanti della Rawa come opportuno nascondiglio di materiale sovversivo e paravento ideale per celare identità scomode. Nel frattempo l’Afghanistan ha subito un nuovo cambio al vertice che sostanzialmente non ha cambiato la situazione: i Talebani, recentemente scacciati dalla rappresaglia americana per la strage delle Twin Towers dell’11 settembre 2001, sono stati sostituiti dal nuovo regime dell’ambigua Alleanza del Nord. Zoya, la mia storia, vincitore del premio speciale “Versilia-Viareggio”, si chiude con un sogno: una giovane donna libera di camminare le strade devastate di Kabul col sole che le scalda il viso, finalmente privo della maschera del burqa.

Zoya con John Follain e Rita Cristofari, Zoya, la mia storia, Milano, Sperling & Kupfer, 2002; pp. 209

Voto 7 

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