Una pioggia di vita vissuta, una
colata di parole. Dense, piene. Semplicemente scaturite dall’esperienza
quotidiana, dalla ricerca profonda, dalla conoscenza dell’intorno, dalla voglia
di misurarsi con gli altri. Massimiliano Martines, con la sua seconda
prova poetica, “Ho scritto
ti amo sullo specchio”, (Pendragon 100 pg, 11 euro) indaga sui sentimenti e
sull’Amore. Ovviamente con la maiuscola. Ha in mano la lampada di Diogene,
tutti i dubbi dei trentenni, è nato infatti nel ’74, e
la consapevolezza dell’unicità da una parte e della fallacità dall’altra. Ogni
giorno è una ferita che dona piacere e che deve essere tatuata sulla pelle .
Il volume segue “Della sete dell’anello” uscito nel 2000 per Manni.
La prefazione di questo secondo è del poeta Roberto Roversi che
definisce la poetica di Martines,
leccese trapiantato a Bologna, anche attore e
fondatore della compagnia teatrale Dry-art, perentoria:
“Nelle pagine di questo volume si esercita, come se la pagina fosse via
via una piazza d’armi, una rabbia fredda e sicura, una
rabbia convinta che finisce alle volte a diventare o
trasformarsi in una rabbia perfino aspramente ironica o anche allegra; feroce e
invadente. Che non si placa, in ogni modo”.
Ed è proprio questa la funzione della Poesia: l’accumulo
costante di privazioni da una parte, l’accrescimento degli stimoli dall’altra,
come nubi, lembi che si scontrano generando una grandine acida che costringe a
pensare, mette alle corde, con le spalle al muro. Sono schiaffi vibrati le parole di
Martines: “il mare si è
sciacquato le ascelle, io sto nutrendo un pianto secco asciutto continuo”, una
catarsi della non belligeranza tra stati d’animo mai confusi, “ho sognato di
affittare la nostalgia, di levarla per un’ora dal marciapiede…nel lavorio di
bocca”, come dice in “Recinti”. Affiorano animali, mai reali, “Un cavallo”, o
mitici come il Dragone di San Giorgio, il tutto teso o sotteso, inclinato o
devastato dalla perdita dell’innocenza, dalla mancanza di purezza, dal lanciarsi
a peso morto nella nostalgia: l’amore perduto che se non è perso allora non era
amore, la mamma definita “eterna”. Da sottolineare,
dall’inizio alla fine, la bellissima “Sarayevo
salentina”, una poesia in prosa, in apnea, quasi senza
punteggiatura. Come tutto il volume, da leggersi tutto d’un
fiato, lasciando decantare e far riemergere dal fondo melmoso delle cose.
Voto
7
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