Metti un tranquillo week end di inizio giugno. Metti la poesia a cena. Metti
una quattro giorni che precedono i quattro referendum che arrivano dopo le amministrative che hanno portato un vento nuovo nel Paese. Metti
un nuovo direttore (di Armunia), Andrea Nanni, voglioso, attivo, presente. La sua risata inconfondibile dall’altezza
dinoccolata ed occhialini e giacche portate con
nonchalance. Metti Castiglioncello, terra di macchiaioli e i fasti della
Piazzetta, e il Lungomare Alberto Sordi e il sapore di Mastroianni (del quale Bobo Rondelli, qui di casa, ne fa un’imitazione
eccezionale) che ancora circola. Metti prezzi popolari per una doppia festa (tale
si è stata), la riscoperta di luoghi magici dell’intorno che neanche la pioggia
ed il vento sferzante la sabbia alle caviglie come frustate hanno saputo danneggiare. Metti poetesse che parevano impettite sciogliersi nell’abbraccio delle Spiagge Bianche di Rosignano Solvay o all’interno delle stanze affrescate del Castello Pasquini. Metti attori dalla voce potente e sontuosa. Metti Roberto Latini
a confronto con il Coleridge della Ballata del
vecchio marinaio (cantata anche dagli ispidi Iron Maiden) in un angolo dell’arenile a contatto con canne di bambù, una staccionata come
limite dell’orizzonte, nuvole rosa dopo un tramonto rossissimo (l’applauso al
Cafè del Mar di Ibiza ne impallidirebbe), metti un gabbiano che sorvola le teste, due volte, come ammaestrato o incuriosito, proprio mentre l’attore
introduce il tema dell’albatro, goffo sulla terra, maestoso a fendere l’aria.
Metti Patrizia Cavalli, poetessa romana dal caschetto canuto, microfono e ironia, gentilezza e sentimento rilasciato senza posa, concedendosi alle stuoie dall’odore acre. Metti un buffet tutto toscano di fettunta e crostini e ribollita e pappa al pomodoro, nei piedi scalzi sulla rena e degustazione di vini locali sinceri e collinari. Metti una performance come “Aria pubblica” del Teatro delle Albe, agito in una scatola-gabbia-cassone con un gorilla ben vestito a
controllare la visione del mostro Solvay alle nostre spalle, che sbuffa in
continuazione i suoi veleni a forma di nubi biancastre (le stesse che getta in acqua e dove la gente felice ci sguazza) nel cielo,
a sfondare le nuvole, il respiro, i bronchi. Metti i fulmini che tranciano verticalmente la notte di sabato tra gli effetti d’eco che sapiente Latini coglie e spruzza. Metti una tromba d’aria che annulla il bosco d’Elisa Biagini che comunque ce lo fa sognare e immaginare nelle sue parole smozzicate nello slalom tra Cappuccetto Rosso e i Fratelli Grimm, saltando a piè pari il mistificatore Disney, le sue poesie intrecciate agli alberi, i rami secchi che prendono vita, il bosco come
attraversamento o come scelta di zona d’ombra e oscura nella quale esistere, la
necessità della perdita. Ci perdiamo fino alle deflagrazioni infernali di Claudio Morganti che ci porta, con la sua casacca nera quasi da tipografo (per scrivere nuovi racconti), negli occhiali rossi luciferini, dantescamente tra le braccia di un Virgilio con voce perfida e sinistra nella visione delle celle più riconoscibili, una carrellata, un corollario dei petali marci dei gironi dell’Inferno dell’Alighieri. Abbiamo lasciato ogni speranza noi che siamo entrati. Un Morganti, somigliante ad Al Pacino, che ci addenta, addentrandoci, ci mostra, le stanze segrete dei nostri vizi,
ammonendoci, con l’ombra delle dita che pare gioco infantile o minaccia-promessa che s’ingigantisce sulle mura. Con la poesia è sempre bel tempo. Siamo tutti ai margini del bosco. Camminiamo sul filo, equilibristi border line. Ogni tanto ci facciamo capolino, ritornando più pieni, con storie da raccontare, condividere, con meno paure. Con paure nuove da decifrare, amministrare, digerire. E’ la vita, signori.
Bisogna sporcarsi le dita. Che sia marmellata o melma.
Voto
8
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