Il sarto di Panama
In my country
L’eclettico
John Boorman è
tornato dietro la macchina da presa per dirigere In my country, un film
che rilegge il drammatico e catartico passaggio dall’Apartheid alla democrazia
nel tormentato Sudafrica attraverso il duplice punto di vista di un afroamericano
poco incline al perdono e di una sudafricana liberal oppressa dal senso
di colpa per le ingiustizie perpetrate da sempre dalla sua gente alla
maggioranza di colore. Il soggetto del suo ultimo film Boorman l’ha attinto da Country
of my skull, un libro scritto dalla boera Antjie Krog, che ha seguito per
tre anni i lavori della Commissione per la verità e la riconciliazione, un
organismo di mediazione politica istituito da Nelson Mandela per consentire un
confronto paritario tra oppressi ed oppressori – questi ultimi avrebbero avuto
diritto all’amnistia a patto di confessare in dettaglio i propri crimini,
dimostrando al contempo di aver eseguito ordini dalle alte sfere –. Il
giornalista del “Washington Post” Langston
Whitfield viene mandato dal proprio direttore in Sudafrica a seguire le
udienze della Commissione per la verità e la riconciliazione, dove conosce la
poetessa afrikaans Anna Malan, inviata per conto di una radio locale:
l’inizio tra i due è burrascoso e pieno di attriti, perché Whitfield ha una
spiccata tendenza alla critica ed è scettico riguardo all’efficacia del
processo di rappacificazione tra bianchi oppressori e neri oppressi. Anna Malan
al contrario crede fermamente nell’Ubuntu, il principio ispiratore della
Commissione, basato sul ruolo etico della collettività: dato che ognuno è
legato al suo prossimo e le azioni moralmente riprovevoli finiscono per colpire
tutti i propri simili, per raggiungere la pace diventa fondamentale porre
criminali pentiti e vittime disposte al perdono gli uni di fronte agli altri.
Un nobile principio, almeno in teoria; in realtà le commoventi testimonianze
che In my country ricostruisce
ne condensano le effettive applicazioni in ogni possibile sfumatura: dal
torturatore nazionale, il sadico Colonnello De Jaeger, che confessa spavaldo
crimini inenarrabili al solo scopo di farla franca, fino all’umile sottoposto
che non riesce più a sopportare lo sguardo tacito di un piccolo spettatore
dell’assassinio dei propri genitori. Durante le udienze Anna e
Langston imparano a conoscersi: le molteplici varietà di dolore e perdono che
passano sotto i loro occhi spingono l’una nelle braccia dell’altro in una
relazione adulterina a tempo determinato. Ottima la scelta narrativa di
frammentare ed intercalare sotto forma di vari flashbacks al plot principale
l’intervista di Whitfield al truce Colonnello De Jaeger (interpretato da un
sempre ispirato Brendan
Gleeson), il cui sadismo viene amplificato ad libitum a confronto
con i mille drammi ordinari ricostruiti nell’infinita galleria delle udienze
della Commissione. Un ottimo film nel complesso: sincero, tormentato, a tratti
commovente ma sempre in equilibrio sull’esile linea di confine che divide la
retorica dal racconto di denuncia. Contrappuntato da un’ininterrotta catena di
suggestivi inni indigeni – ideali per accompagnare (e sublimare con la loro
insostenibile malinconia) i riti di catarsi collettiva voluti da Mandela –, In my country regala una
lezione civile che non si dimentica, presentando in continuazione schegge di
dura realtà difficili da metabolizzare: lo stesso finale è emblematico di
quanto sia arduo, talvolta impossibile, scendere a patti col razzismo o
comprendere il muro d’omertà che ha circondato per anni l’Apartheid. Imperdibile.
In my country - Country of my skull, regia di John Boorman, con Samuel L. Jackson, Juliette Binoche, Brendan Gleeson; drammatico; Gran Bret./Sudafr.; 2003; C.; dur. 1h e 40'
Voto
7/8
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