Un vajtim arbėresh, regia di Francesco Suriano, 2008, presentazione
Un vajtim arbėresh, regia di Francesco Suriano, 2008, recensione
Il
canto come specchio dellanima, il canto per ritrovare nellemozione corale le
proprie radici. Il canto, ideale depositario dellidentitą arbėresh, č protagonista e mezzo di espressione
della diaspora albanese in Un vajtim arbėresh,
il toccante spettacolo per la regia di Francesco Suriano,
prodotto dal Teatro
Stabile dInnovazione della Calabria Centro RAT in collaborazione con Teatri del Sud, che (in un primo
allestimento) č stato presentato nellestate 2007 nei teatri antichi della
Calabria per il Magna Grecia Teatro Festival e il 18 e 19 gennaio 2008 č andato in scena in prima nazionale al Teatro Studio di Scandicci.
I sei attori cantanti in
scena hanno interpretato con poesia ed energia una Medea
atipica, emozionante e contemporanea, una sorta di percorso iniziatico, che
riflette e vanta con fierezza e pił di un pizzico di nostalgia la propria
identitą albanese e bizantina. La lingua arbėreshe,
che della lingua albanese attuale č progenitrice, si trasforma in una melodia
recitata e cantata che accarezza e seduce lo spettatore, invitandolo a immedesimarsi per unora di spettacolo nei valori e nella
cultura di un popolo che si stabilģ in varie regioni del sud Italia (Calabria,
Abruzzo, Basilicata, Sicilia, Molise, Campania e Puglia) tra il XV e il XVIII
secolo, integrandosi con i locali, ma mantenendo la sua identitą. Oggi che
le nuove generazioni comprendono, ma difficilmente parlano larbėresh, nasce questo spettacolo che rivendica questa lingua - patria.
I sei attori in scena la riportano in vita nelle sue diverse declinazioni (ogni
paese abitato dalla comunitą italo - arbėresh ha le sue intonazioni), ripulendola delle inflessioni moderne e dialettali, come fece Dante per il volgare. In sintonia con la lezione di Girolamo
De Rada (Macchia
Albanese 1814 San Demetrio Corone 1903), poeta vate della letteratura
albanese.
Il risultato č uno spettacolo senza sottotitoli, in
cui la sacralitą e la poesia dei
cori vjersh colorano di morbida intensitą i sentimenti, esprimono con cadenze e tonalitą cangianti lesprit atavica di una
popolazione che rivendica la propria storia, il ricordo della sua terra natia
(due sacchi di terra caratterizzano con poesia lo spazio scenico). Uno
spettacolo di non immediata comprensione (lo scoglio di una recitazione in
lingua originale non č semplice da superare), che riesce comunque
a colpire al cuore (e a far riflettere) lo spettatore, anche grazie al continuo
e fluente contrappunto cantato.
Niente musica: lidea iniziale di dare spazio agli strumenti originali
della tradizione greca, albanese e macedone come gli strumenti a percussione dałli e daģr e gli strumenti a
corda buzuki e ciftelģa č
stata abbandonata per dare ancora pił spessore e capacitą evocativa ai canti a
cappella dei protagonisti. Alcuni degli attori in scena fanno parte del gruppo Zjarri I Ri, che
potremmo tradurre in italiano come Fuoco nuovo, un nome che esprime anche semanticamente la rinnovata volontą di questi musicisti
cantanti attori di rivendicare le origini culturali. Con gioia e
determinazione. Lo dimostra il fervere dei canti (fino a notte tarda) anche
dopo lo spettacolo, lemozione autentica con cui ogni interprete di
Un vajtim arbėresh ha calcato la ribalta, il senso di complicitą che,
alla fine della piece, ha invaso limmaginario di ogni
spettatore che ha avuto la fortuna di assistere al canto libero di questa etnia
in bilico fra la diaspora del passato e le sfide del presente, fra la nostalgia
dei propri luoghi natii e unidentitą culturale in evoluzione.
Voto
8