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  20/04/2024 - 15:04

 

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C'è Del Buono in Stenterello
L'incredibile storia della nascita della maschera fiorentina
Soggetto di Alessio Venturini, testo di Alessandro Riccio, costumi Katia Pepe, Daniela Ortolani, luci di Marco Santambrogio, oggetti di scena di Laura Sassi. Con Alessandro Riccio nel ruolo di Stenterello, Silvia Paoli, Lavinia Parissi, Nicanor Cancellieri, Roberto Andrioli, Giuseppe Marchese
Dall'11 al 15 febbraio 2009 al Palagio di Parte Guelfa, Salone Brunelleschi, Firenze

 




                     di Tommaso Chimenti


Dopo il Mese Mediceo un’altra felice intuizione di Alessandro Riccio e della sua Tedavi 98: riportare in vita, e proprio sotto Carnevale, l’unica maschera da coriandoli e cenci fiorentina. Nata a teatro, appunto come suggerisce il titolo a doppio significato, dalla penna e dalla fantasia a fine Settecento dell’attore Luigi Del Buono, lo Stenterello di Riccio diventa un’affascinante analisi, senza perdere il suo solito ritmo e senso della battuta brillante, sul doppio pirandelliano, sull’essere e sull’apparire, insomma una riflessione, dall’interno, del mondo dell’attore. Chi meglio di Riccio poteva interpretarlo: magro, dinoccolato, gracile. Ma lo spettacolo tutto fa tranne stentare. Anzi, vola sul pentagramma colorato e leggero sull’impianto “delusione, amorosa e professionale, nascondimento, rivelazione, riscossa, amorosa e professionale”. Il soggetto è di Alessio Venturini. La regia di Riccio si circonda di attori genuini tra i quali spicca Silvia Paoli che ci mostra, così come nel “Magnifico Lorenzo”, una vasta gamma di aperture e slanci, di cambi di registro, pur restando nel lieve e nello scanzonato, di scosciature e spaccate (esilarante la scena della prostituta, Verginea, che, mentre soddisfa carnalmente un cliente, elargisce consigli di vita all’amico), di toni di voce, dal ridicolo al grave, dal fanciullesco all’attoriale profondo, accompagnando la timbrica gutturale ad un corpo teso e elettrico pronto e scattante. Divertentissimo anche lo stacco del casting per la selezione degli attori da fare entrare nella compagnia. La lettura della visione è stratificata. Riccio (una Maria Cassi al maschile) è riconosciuto come il portatore a Firenze del teatro in costume, ma né volgare né vernacolare, in splendidi luoghi non convenzionali. La scrittura e struttura drammaturgica di Stenterello ne sono la forza, i personaggi sono ben costruiti con un’anima che travalica il lazzo e lo sberleffo, giochi nei quali a volte le piece ricciane avevano esondato. I costumi sono raffinati. Riccio si ritaglia il corposo “pasto” dell’attore che viene fagocitato dal personaggio in un duello interiore schizofrenico, di rabbia e gelosia, tra corpo e mente, tra coscienza nascosta e Io esteriore. Lo specchio e la maschera danno al confronto dialettico tra le due ragioni che albergano nello stesso corpo un microclima di mistero che si dipana in una risata ristoratrice e in un lieto fine appagante di riconciliazione con il sé. Anche l’inizio, da “Rumori fuori scena”, vede un interessante azione di ribaltamento tra una platea immaginaria inesistente ed il pubblico reale (assiepato nella sala del Palagio di Parte Guelfa, palazzo magnifico ma la risposta dell’audio ne ha risentito) che si gode la schiena degli attori, nel testo e sul palco, evidenziando, fin da subito, il tema del doppio. Le considerazioni si spostano anche sul mestiere dell’attore, percorso, attuale e moderno, comune a chi cerca un mestiere artistico per seguire la propria spinta interiore della creatività, rinunciando alla tranquillità di un lavoro, cosiddetto “serio” e come tale a livello sociale riconosciuto. Tra cedere al proprio istinto senza certezze o cercare il posto fisso, che comunque oggi non esiste più. La precarietà come fulcro, come spina e pungolo per la crescita e la ricerca, come limite che non riesce a donare serenità e stabilità per programmare e progettare un futuro. Riccio ci mette brio nel ricostruire la storia personale dell’inventore della maschera della commedia dell’arte fiorentina, dalla bottega da orologiaio in Piazza Duomo alla passione per il palco. Il vocabolario della maschera con il nasone è ridanciano e volgare, la costruzione delle frasi è contorta, propone continui neologismi sbracati, sbaglia i verbi. Ma i periodi sono ficcanti e colgono nel segno, colpiscono con sagacia e astuzia e puntiglio da strada, mettono con le spalle al muro, con una comicità da borgata, sferzante, sprezzante e impertinente, che non tiene conto di ruoli o titoli. Stenterello non ha paura, è impunito (un primo Benigni) e questa sua sfacciataggine lo salva, gli regala quell’aura di attendibilità, di sincerità simpatica, di bocca della verità da giullare di corte con la consapevolezza acuta del non poter essere imbrigliato in schemi e regole. Ha sempre la battuta pronta e non si fa mettere i piedi in testa da nessuno, evitando la polemica con una risata finale e pacche sulle spalle. E’ un popolano che ha mantenuto salda la vivacità di una dialettica, sboccata, liquida e d’assonanza, spassosa di bollicine piccanti.

Voto 7 

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