"Non sono una
signora, una con tutte stelle nella vita. Non sono una signora, ma una per cui
la guerra non è mai finita" (Loredana Bertè, “Non
sono una signora”).
Un cigno nero ed uno bianco
stramazzano, senza starnazzare, nel recinto, cortile, aia o stagno a loro
concesso. Lo passano palmo a palmo. Il quadrato a
terra disegnato sa di ring, di Dogville.
Nessuno uscirà vivo da qui. Nessuno busserà a salvarle. Una
fiaba noir, inquietante come un coniglio-cane fedele carrolliano,
una sorta di Barbablù, ma senza l’orco. Le due
danzatrici, complici e solidali, sempre di spalle, le facce nascoste dalle
mani, di vergogna, di pianto, d’offesa, come un burka,
un velo, un hijab. Facce che, una volta
mostrate, hanno le tinte e le pennellate del clown con il sorrisone e il naso rossi e gli occhi lacrimevoli pierrottiani:
pagliacci commoventi (e qui sarebbe un bellissimo finale). Non c’è gioia, non
c’è allegria. Allergia al luogo, quella si. Sono
schiacciate a terra queste due donne che sono e rimangono Signorine,
come a dire zitelle. O perché in lutto o perché volevano, vorrebbero, avrebbero voluto, convolare a nozze. Prima si aggiungeva
anche l’aggettivo “giuste”, che completava quello che sarebbe stato “il giorno
più bello della vita”. Perché dopo sarebbero cominciati i dolori. Il loro
scenario è fatto di una bacinella, l’orizzonte è una pentola. L’unica solidità
è un mobiletto, un piccolo armadio tronfio nelle sue ante bombate come
pettorali villosi, dove rifugiarsi dentro, come bambini a nascondino, il
ripostiglio oscuro per sfuggire alle ombre che si ammantano ed ammassano reali.
Dell’uomo, legnoso, nessuna traccia ma è presente e pungente nei lamenti, quasi
di balena, di delfino o per giunta da sirena, in audio, continuo e straziante.
Che in famiglia si celano gli assassini delle donne, che la casa, il focolare
domestico è il luogo meno sicuro per casalinghe, compagne, madri, mogli, amanti.
Un mobiletto che diventa bara e tomba nel vessillo nero. Del maschio ecco un
catino, blu non per sbaglio, parato come portiere di
calcio in un olè trafugato e trangugiato in gola. Rimangono
imprigionate al pavimento, tentano di alzarsi ma una forza le tiene basse, impigliate
alla rete che si sono costruite addosso. Battono con le mani il suolo come wrestler,
ma dall’altra parte non c’è nessuno disposto a dare loro il cambio, ad
accollarsi il peso di quel vuoto, a soppesare mobilie e spazi ben precisi. Sono
quadri in dissolvenza e l’ironia è bandita. Neanche un accenno a figli, pargoli
o bambini: i sogni e le ambizioni sono scaduti. L’esterno di campane domenicali
incute timore e spinge ancor più dentro le amate-odiate stanze, come rifugio conosciuto ma né caldo né tanto meno accogliente. L’unica
ribellione è un “j’accuse”, un “Io so i nomi dei
responsabili” pasoliniano, un “Così non va” che sa di presa di coscienza, ma non ancora della Bastiglia, forse
solamente della pastiglia antidepressiva. Sono manichini senza sartoria,
burattini senza fili che fanno rumore per attirare l’attenzione nella loro
immensa solitudine, impaurite dai chiavistelli, dalle porte che si chiudono e sbattono.
Per dare e ricevere amore basta un miagolio di gatto a compensare mancanze ed
attenzioni negate, non ricevute, represse. Ma le
donne, le signorine, non sono soltanto tali: sono equilibriste da canzoni di De Gregori,
trapeziste felliniane da circo.
Voto
8