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Re nudo
Testo e regia Alessandro Garzella
Liberamente ispirato a I vestiti nuovi dell’Imperatore di Hans Christian Andersen e “1984” di George Orwell, collaborazione drammaturgica: Francesco Niccolini, con Fabrizio Cassanelli, Irene Catuogno, Ivano Liberati, Francesca Mainetti, Chiara Pistoia, Francesca Pompeo, Marco Selmi, Anna Teotti, scene Luigi Di Giorno, video Valentina Grigò, luci Giuliano De Martini, costumi Rosanna Monti, maschere Ferdinando Falossi, foto di scena Andrea Bastogi
Visto al Teatro delle Spiagge, Firenze, il 15 gennaio 2011

 




                     di Tommaso Chimenti


Mai titolo fu più attuale. Ma quando il “Re è nudo”, siamo tutti noi a rimanere in mutande. In una scena da Marat Sade punziano, gli uomini liberi si autodenunciano e si limitano in gabbie aperte, dove trovare pace e la “giusta” punizione, in un cortocircuito che ricorda “Il pianeta delle scimmie”, in questo mondo al contrario, il nostro, oggi, qui ed ora, dai valori sballati, rimossi, sovvertiti. Un manicomio dove il lavaggio del cervello è lo sport principe. Alessandro Garzella costruisce un teatro fortemente di parola in un ambiente virtuale tecnologico, un frullato dei nostri anni bui, un riassunto da rabbrividire, un concentrato che denuncia e nessuno salva, un patchwork dei peggiori anni della nostra vita: una marcia funebre. Del Potere è rimasto soltanto il suo abuso, la sua deriva in questo videogioco dove, con il joystick sembra di vivere la vita di un altro, che ci sia sempre un nuovo schema, una nuova “vita”, un nuovo insert coin. La scena è schiacciata tra due pannelli dove passano i video: il bene ed il male, tutto comunque svilito o sdoganato. La riproposizione continua, in loop in televisione, nei decenni hanno reso eventi, facce, momenti cruciali al ruolo di comparse, forse fiction, sicuramente romanzate, pensa la gente, il popolo, sempre più contento di non essere chiamato a votare, di non essere interpellato per un referendum, sempre più felice che ci sia qualcuno che prenda decisioni per lui. Che fatica la libertà. Bisogna stare tutto il giorno a pensare. La vita è una sola, voglio perdere tempo, invece che prenderlo. Ed allora ci arrivano in faccia in bianco e nero, che sa di memoria ma anche di nostalgia, la strage di Bologna ed il volto di Pasolini, Pertini ed il Mundial dell’82, Gorbaciov e la caduta del Muro di Berlino, Totò, Berlinguer, Falcone, Gramsci, Kennedy (il montaggio ricorda molto la pellicola di Piergiorgio Gay, “Niente paura” che hanno come filo conduttore le ballate di Luciano Ligabue). Ed ancora, a fare da contraltare, da contrappasso: Hitler, Mussolini, Stalin, Lenin, i campi di concentramento, Hiroshima, l’11 settembre. Tutto mixato, shakerato, debordante, da bere in un sorso, in apnea. Sono/siamo chiusi dentro. Nessuno ha però la chiave, che la cella è aperta, ma dentro si sta meglio, meno paure, meno oneri. Niente è come sembra: è molto peggio. La videocrazia è diventata, come pellicola omonima ricorda, Videocrazy, tutto diventa immagine e l’immagine, si sa, è bidimensionale, manca di profondità, è leggera e superficiale, non puoi andarci a fondo, arriva, s’illumina, passa e se ne va e lascia una scia di bava di luce che viene compensata, per retine traumatizzate e neuroni stanchi e indaffarati a dirimere il traffico dei segnali da accogliere, in dissolvenza da altrettanti corpi e colori sfolgoranti. Mosaico tra Grande Fratello e canzonette fasciste con slanci alla Petrolini, Radio Maria. Il Re non solo è nudo. Nella versione garzellana, tremenda, negativa e pessimista, in poche parole realista e concreta, il re (minuscolo) è un menomato quasi paralizzato in carrozzina, figura a metà strada tra il padre di Amleto senza nerbo ed un Ubu roi fumettistico che non parla, ma viene adorato come totem e figura di riferimento. Il Re mostra la prostata, ai sottoposti non rimane che lucidare il silicone. E’ il potere che perpetra se stesso, che si autoalimenta, come le bugie, il telefono senza fili, le leggende metropolitane, le credenze popolari, le superstizioni: il re è morto, viva il re. La corte assomiglia tragicamente a quella moleriana de “Il misantropo”. Abbiamo bisogno di figure capaci di farci ombra, anche le più bieche e grette, per sentirci protetti, per sentirci migliori, più intelligenti o sostenuti, non soli in questa valle di lacrime: l’uomo forte. Nell’arena della scena i pupazzi in carne ed ossa hanno facce bianche da cerone d’attore e gote rubizze clownesche: stanno recitando la loro sporca parte in un copione consunto e finto. “Tutti hanno capito il trucco, tranne te”, canta e urla e rappa Fabri Fibra. Tutto vero, purtroppo. Non è fantascienza. Orwell è stato di gran lunga surclassato. Democrazia è una parola vetusta, desueta, arcaica, svuotata, noiosa, da cambiare, come la Costituzione, con qualcosa di più frizzante e moderno, con qualche appiglio più curioso, più eccitante, forse un televoto o uno stupido quiz milionario. Gli intellettuali si accodano al pensiero del più forte, flagellandosi con appellativi ome “opportunista” e “ipocrita” ma rimanendo in sella al cavallo vincente, così viene comprato l’assenso e il silenzio, la condiscendenza, l’acriticità. Così non ci si sente piccoli, soli, ultimi, emarginati, isolati. La depressione però avanza a passi da gigante, il pensiero viene svaligiato con gli oggetti che si possono avere grazie a quel “leccaculismo”. L’innocenza e la meraviglia vengono castrate, le pornostar assumono il rango di vestali imprescindibili, la morale diventa una sconosciuta. Siamo davanti ad un processo in piena regola con kapò con tanto di frustino sadomaso. Al popolo piace essere castigato; se vieni punito ritrovi la retta via, i colpi accusati sono consolatori perché redimono, riaccolgono tra i giusti e gli onesti, ripuliscono. Stessa funzione del fuoco in Fahrenheit 451. E se i sudditi (cesellati nella Zombie dei Cranberries), non più cittadini, vengono lobotomizzati, c’è ancora più piacere e gaudente ludibrio a dire in diretta, fregiandosi della propria magnanima ed altruista democraticità, che “il popolo è sovrano”. “Ma mi faccia il piacere”, diceva il Principe De Curtis. Alzandoci affranti, sconsolati, sconfitti. Resistere vuol dire esserci. La frase da ricordare: “A forza di esportare la democrazia, siamo rimasti senza”.

Voto 8 

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