Babilonia Teatri,
The End, 2010
Babilonia Teatri,
Pop star, 2009
Babilonia Teatri, recensione Pornobboy, 2008
Babilonia Teatri, presentazione Pornobboy, 2008
Babilonia Teatri, Made in Italy, 2008
Morti che camminano a Primavera dei Teatri 2009.
Morti che stanno impalati, impilati nelle loro bare, chiusi dentro e fatti ossigenare per il tempo dello show, che si deve andare in scena e mostrarsi, della visione condivisa prima di rientrare nei loro sarcofagi avvitati a chiave e
imbullonati. Tre morti che respirano ancora, già defunti prima
della fine, di quel “terminus” che tutto cancella. Solitudini colorate di petali sanremesi, tra i quali nuotare, finalmente liberi, come Paperone nelle sue monete d’oro, di sorrisi di maniera
che si compenetrano senza salvarsi, senza possibilità di salvazione né redenzione. Aggrappati ai loro loculi verticali, i tre
Babilonia ultrà stanno come scimmie appese alle liane lanciandosi in balzi ginnici elastici senza mai lasciare la presa, il guscio che li protegge e li delimita, cani alla catena, accuditi nella cuccia-cassa con la croce. Senza il contesto tombale non sono, non esistono, senza l’idea della fine non abita il durante. Ed è la ricerca del termine, forsennata e ossessiva e autodistruttiva, che dona, con una parvenza
(ma soltanto tale) di autosadismo autopunitivo
autolesionista, senso al contesto esistenziale. Non sono chiusi nelle bare, ma vivono lì dentro da sempre e stavolta vengono aperte perché raccontino prima della polvere, del
nulla. Il Teatro è esploso, il mixer in vista, che i Babilonia non hanno niente da nascondere, non hanno paura del non-detto, che niente
qui è teatrale ma tutto è trasposizione, cruda ma anche liscia e semplice, senza vergogna per un linguaggio secco, ripetitivo, omicida e folle, netto, composto da una sinfonia ruvida di parola, silenzio, pausa, parola come tagli in una
tela che ti costringono a pensare, con le spalle al muro ed una bocca davanti che vomita parola mostrando incisivi, canini e morali cariati. Come robot splatter scandisconomitragliando parole che hanno il peso specifico del piombo, cadono giù dal palco e non si frantumano ma stanno, non
aleggiano ma fanno rumore e volume accumulandosi in platea sottolineate da slang volgare e quotidiano. Voci atonali, senza pathos, senza recitazione, che paiono la signorina che augura buon viaggio al casello autostradale, senza espressione, senza inclinazione negli abiti da favola kitsch, colori improbabili sovrapposti lucidi e leopardati. Il testo irlandese,
proposto per la
rassegna romana Trend da Rodolfo Di Giammarco, e qui cambiato,
modificato per motivi di diritti d’autore, viene tradotto e trasportato dall’anglosassone brughiera alla Padania, in un collegamento che trova sempre più punti di contatto tra la verde Irlanda e il Nord Est. Niente fotografie ricordo, nessuna immagine di repertorio da conservare: qui c’è da sopravvivere. Gli sguardi persi e fissi verso l’orizzonte-nulla, senza meta vaganti, quelle campagne brulle che non regalano accondiscendenza né compiacenza né tanto meno piacere estetico allo sguardo fanno il paio con le fabbriche, un contesto attorno che
non rassicura, tenta di acquietare-zittire senza risultato se non portando all’ebollizione implosivi di una rabbia violenta fatta di disco-dance sudata e agitata ad alta gradazione di decibel, di stupri, di sesso per dimenticare, di
estremi da spostare. Felicemente irrispettosi, coraggiosamente irritanti, dolcemente snervanti.
Foto di scena di Andrea Cravotta.
Voto
8