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  26/04/2024 - 17:13

 

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Pippo Delbono
Racconti di giugno
Incontro con se stesso
Il 25 aprile 2006 alla Tensostruttura del Castello Pasquini Castiglioncello, dal 17 al 19 luglio 2006 al Festival d'Avignon

 




                     di Tommaso Chimenti


Pippo Delbono: Questo buio feroce, 2008
Pippo Delbono: Urlo, 2007
Pippo Delbono: Racconti di giugno, 2006
Pippo Delbono: Guerra, 2003


A giugno sono nato io, ma questo non è importante”. Comincia così il monologo astioso, tirato, esterrefatto di Pippo Delbono nel suo nuovo “Racconti di giugno”presentato a Castiglioncello per Armunia, che sarà proposto dal 17 al 19 luglio 2006 al Festival d'Avignon. A giugno è morto il padre, sempre a giugno anche l’amico che lo ha accompagnato, come dice lui “in una storia alla Brokeback mountain”, per dieci anni di vita-percorso insieme. Chi è Pippo Delbono? Secondo la sua stessa definizione “omosessuale, sieropositivo e buddista” ma “non ditelo a mia madre”. Forse è più facile parlare agli sconosciuti, ogni sera diversi, ogni sera lo stesso muro del pianto opaco, indefinibile, catastrofico, un muro di gomma che prende e macina, che ha bisogno del dolore e della paura altrui per confortarsi dalle miserie quotidiane, accendere la tv, parlare del Milan in Coppa Campioni. Ma la vita bussa sempre più forte e fa rumore, spezza candele e vetri. La vita fa venire il mal di pancia e tutti i pugni vanno presi tutti, bisogna essere centrati dal treno in corsa per riuscire a capire. Niente è un caso. Il dolore è un percorso, una rinascita, un cadere negli abissi pronto per darsi una nuova spinta, camminare nel baratro dei sentimenti per nuovamente tornare ad essere. In questo “Racconti di giugno”, un collage di sensazioni e patchwork di esperienze varie di un corollario infinito di attimi potenti ed invasivi, deliranti ed assoluti, l’attore mette in gioco se stesso, come sempre del resto, e lo fa forse nell’unica maniera conosciuta. Spogliandosi dei filtri, delle barriere, spalancando lo sterno al vento, con gli organi in bella vista e la carne viva. Anche se il palco è sempre lì a rammentarci le differenze e le divisioni, le distanze e le lontananze tra chi parla e chi sotto ascolta (anche se la rinnovata sede del Castello Pasquini ribalta il concetto del teatro classico con il palco ad altezza terra e lo spettatore in alto come un antico anfiteatro, o ancora molto simile allo Studio di Scandicci) sempre un po’ più passivo che partecipe quando il tema diviene proporzionale tra l’autobiografismo e la drammaticità degli eventi concatenati. Si soffre e ce ne distanziamo, si capisce e ci si commuove, tra patetismo e voglia di fuga, tra buonismo, senza benpensantismo, e normalità, logorio e gioia della sana routine che ci va stretta, tra la pietà e la compassione, veri nemici di un teatro dell’anima, di un teatro della vita come quello del regista genovese. “Facciamo teatro per distruggere dei muri, altrimenti non avrebbe senso” diceva Kantor e Pippo l’ha seguito alla lettera facendo del proprio disagio la sua personale piece-rivincita- rivoluzione da inscenare quotidianamente, salvandosi dal delirio, dall’annientamento. La famiglia ultra cattolica, i preti pedofili, l’Lsd e l’eroina, l’amore-odio- distruzione con l’Amico, la scuola di teatro che lo ha salvato da morte certa, e l’Odin Teater in Danimarca, la malattia conclamata fino a Bobò. Qui c’è tutto il mondo del padre di “Gente di plastica” o “L’urlo”. Nell’atto di soffiare tutta la sua sofferenza in un message in a bottle, tragico ed altissimo, da pirata di vita sta tutta la drammaticità terribile, irripetibile e solenne dell’esistenza. Pippo Del Bono ha vissuto? Ha vissuto. Ma non perché ha fatto molte esperienze, né perché queste siano state devastanti, ma perché le ha compiute immergendosi fino al midollo, lasciandosi andare, senza pensare alle conseguenze, come se il domani non dovesse mai arrivare. Ma questo è teatro? Ma questo è “il teatro”? O non è teatro tutto il resto? Il teatro è morto e siamo ritornati alla narrazione del saggio nella caverna delle emozioni, il passaggio del testimone della memoria, del ricordo, del passato individuale che diviene esperienza collettiva, aspirazione- respiro ed espiazione del gruppo attraverso il totem, il sacro fuoco della conoscenza. E’ giusto mettersi di fronte a sconosciuti ed aprire il cassetto dei dolori? E’ giusto ferirsi ogni volta masochisticamente per lo spettacolo? Non si rischia così di banalizzare le tragedie personali alterandole ed esorcizzandole in una bolla di sapone che nel corso delle repliche diviene pura contaminazione di linguaggio e parola ed applausi finali che molto sanno ed hanno di senso di colpa? Sono giusti, e reali, gli applausi finali? Un silenzio sarebbe il miglior ascolto.

Voto 8 

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