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  23/04/2024 - 20:38

 

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Parade
A cura di Macellerie Pasolini
Drammaturgia Ennio Ruffolo, drammaturgia sonora Fabio Fiandrini. Con Nati Broche, Marianna Martino, Carlo Pastore, Marco Ponti
Presentato al Festival, drammaturgie possibili, Villa Aldrovandi Mazzacorati, Bologna, dal 16 al 25 giugno 2011

 




                     di Tommaso Chimenti


Ritratto di famiglia in un interno azzerato e buio. Ad una prima occhiata non ci si può esimere dal vedere, nelle scene create dagli squartatori pasoliniani, stralci, o anche solo il succo, di Tree of life, la recente pellicola di Terrence Malick. Una drammaturgia coreografata dove, nel silenzio ovattato, complice e colpevole, di una famiglia borghese, apparentemente soddisfatta, padre, madre e due figli, si cela tutto l’odio, il rancore, la violenza camuffata con l’affetto. Spiazzante sono infatti le situazioni di iniziale tepore e accoglienza che improvvisamente si trasformano in raggelante trasfigurazione acida, in un susseguirsi, in una mostra e dimostrazione, una parata appunto, del fin dove si può arrivare in un microcosmo innaturale e costruito com’è l’istituzione della famiglia. Si fa, all’interno, nascosti, non visti, ma non si dice, che non si sappia fuori. Ma i ritratti sono troppo delineati, il padre veste in nero, la madre in candido. Il bene e il male così ben divisi, la musica (comunque lodevolmente architettata e disegnata con charme e decisione da Fabio Fiandrini) non riesce in quella distonia e disequilibrio che servirebbero per distoglierci e portarci a credere per poi distruggerci le illusioni. L’atmosfera è da subito cupa e grave introducendo immediatamente, prevedibilmente, una soluzione traumatica. Le scene hanno il loro divenire, certo non banale, ma delineato e circoscritto a priori. Si sa già dove si andrà a parare. E c’è mota più violenza ed accusa negli sguardi della figlia, appena riemersa dall’apnea nella minestra impostale dal padre-padrone, nei confronti della madre che immobile se ne sta a guardare ed a far finta di niente andando avanti, protraendo l’agonia nel buon nome del cognome, del casato, dell’unione che niente deve scalfire. Stringe lo stomaco quando la madre, colpevole quanto il padre perché passiva e silenziatrice degli eventi nefasti commessi tra le quattro pareti, sparecchia l’ennesimo pasto andato di traverso tra schiaffi al figlio non meritati ed inaccettabili, mentre la figlia riporta in tavola i piatti sporchi come a dire adesso laviamo i panni in casa, discutiamone, parliamone, non mettiamo ancora la testa sotto la sabbia, non fuggiamo dagli sguardi, non abbassiamo gli occhi, non facciamo un’altra volta come se niente fosse successo, non buttiamo la polvere sotto il tappeto. L’appartamento in bianco (il classico celebre Mulino biscottaro?) ricorda quello del Castellucci senior nel recente “Sul concetto di volto nel figlio di Dio”, la luce del neon è didascalica nel tratteggiare il freddo di dentro, il gelo dei sentimenti. La frustrazione del capo famiglia si riversa sugli anelli più deboli della catena alimentare del nucleo con infelicità e piccole grandi violenze perpetrate a sorteggio, nella casualità dell’inferno quotidiano, come uno squallido kapò tra le baracche innevate: i capelli tirati, i polpastrelli lasciati sulle gote, atti sessuali mimati dentro stanze dai muri di gomma, silenziosi che tutto incamerano, con occhi ed orecchie tappate da scimmiette mafiose. Tutti sono bendati edipicamente, la furia cieca dell’uomo adulto che si schianta come onda, come tornado, l’incoscienza della genitrice-geisha che protegge i propri figli mandandoli in pasto all’orco, quella della prole che, nella dinamica aguzzino-vittima, sostiene e resta invece che fuggire e denunciare, anzi amando ancora di più, se possibile, quell’odio che prendono come attenzioni. Simboli: la benda nera. Simboli: le scarpe che tutti i componenti, martirizzati dallo starsi così vicini fino al soffocarsi, si tolgono; perché chi non ha scarpe, chi decide di levarsele, sceglie di non andare ma di restare a subire, a pagare, a scontare colpe inventate. A lampi da Pina Bausch però non segue altrettanto stupore per un lavoro in fieri e tutto in divenire ma da ripulire, asciugare, scorticare e scardinare per trovare quella mollezza, quel midollo per aggredire l’aggressione, per frantumare l’ibernazione della Sacrada Familia. Si muore più in famiglia che in qualsiasi altro luogo sociale. Ed a volte l’infelicità che i figli portano nel cuore, e che ripercorrono nelle loro vite, nelle loro relazioni, mettendo in scena all’infinito le stesse patologiche dinamiche, è ancora peggiore di una morte prematura. I macellai poetici sapranno come tagliare l’osso, come sezionare, come spolpare, come insanguinarsi le mani, come sporcarsi per arrivare al nocciolo della questione.

Voto 6 - 

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