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  26/04/2024 - 15:46

 

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Compagnia Orsini
La leggenda del grande inquisitore
Da I fratelli Karamazov di Fedor Dostoevskij, con un grandissimo Umberto Orsini e il valido complice Leonardo Capuano. Regia di Pietro Babina, scene di Federico e Pietro Babina, costumi di Gianluca Sbicca, musiche di Alberto Fiori, soundesign di Alessandro Saviozzi, video effects di Miguel D'Errico
Dall’11 al 16 novembre 2014 al teatro della Pergola di Firenze, dal 2 al 7 dicembre 2014 alla Sala Shakespeare dell’Elfo Puccini di Milano

 




                     di Giovanni Ballerini


Il racconto La leggenda del grande inquisitore nel romanzo di Dostoevskij è messo in bocca ad Ivàn Karamazov. Ma la Compagnia Orsini non fa l’errore di metterlo in bocca a Umberto Orsini. E vince la scommessa di trasformare questo pezzo emblematico, che tanti considerano il vertice del pensiero dostoevskijano, in una riuscita piece contemporanea all’insegna della comunione (ma anche della moltiplicazione) dei linguaggi. La scelta illuminata di un Pietro Babina in forma come ai tempi del Teatrino Clandestino, che dello spettacolo firma la regia e, con il figlio, il brillante architetto, illustratore e scenografo Federico Babina, co-firma le scene (che sono uno dei punti forti dello spettacolo), è di non attuare una rivisitazione del celebre monologo tratto da I fratelli Karamazov, ma di realizzare una nuova e attualissima riscrittura scenica intorno a Dostoevskij partendo dal capitolo autonomo del celebre romanzo. Il risultato sono 4 spettacoli in uno, in cui Umberto declina, con la complicità di un ottimo Leonardo Capuano, altrettanti approcci a una sconcertante visione del mondo e del rapporto con Dio. Una sventagliata di emozioni dominata dalla verve straordinaria di un attore che a 80 anni (vedendolo in scena è quasi impossibile convincersi che Orsini sia nato nel 1934) si toglie la soddisfazione di vestire nello stesso spettacolo i panni dell’attore di ricerca, del performer e del più classico e coinvolgente mattatore, probabilmente anche galvanizzato di tornare nuovamente nella sua straordinaria carriera d’attore a confrontarsi con la complessità del personaggio più controverso e tormentato della letteratura di tutti i tempi.
"Quando tantissimi anni fa interpretai il ruolo di Ivan Karamazov – racconta Orsini – in un famoso sceneggiato televisivo ebbi un successo che oggi è inimmaginabile. Dopo molto tempo mi era venuta voglia di tornare ai temi di quel romanzo e di pronunciare parte delle parole che costituiscono la zona più incandescente del racconto che Ivan faceva al fratello Alioscia e che è generalmente citato come La leggenda del grande inquisitore. Assieme a Pietro Babina e a Leonardo Capuano abbiamo immaginato un Ivan sopravvissuto all’immagine che il romanzo ci offriva e che, in un tempo fuori dal tempo, viene continuamente interrogato e perseguitato da un personaggio che potrebbe essere anche una proiezione della sua delirante fantasia, dei suoi sensi di colpa, del desiderio di punizione, del radicato disprezzo per l’umanità intera, della sua paura di confrontarsi colla propria giovinezza così faustianamente invocata e respinta".
Lo spettacolo comincia con un lungo tratto senza che alcuna parola venga pronunciata. Una partitura precisissima di movimenti che verrà replicata più tardi con le parole. Babina ha costruito lo spettacolo come una macchina di scatole cinesi che si incastrano alla perfezione come in un meccanismo a orologeria.
"La scena come una macchina del tempo muta radicalmente catapultandoci nel contemporaneo – scrive Pietro Babina nelle note di regia – proponendo allo spettatore un’altra convenzione, quella dello speech della Ted conference in cui ciascuno può raccontare una sua idea, una sua visione del mondo purché politically correct. Qui in modo letteralmente ironico il format della conference democratica viene adoperato per contenuti tutt’altro che corretti, come a voler mostrare che il discorso e la sua retorica sono strettamente connessi e che i significati sono spesso mistificati dall’estetica. L’esposizione dei pensieri del Grande inquisitore, detti da un pulpito della democrazia, risultano perciò più banali, meno aggressivi, quasi scontati e proprio per questo più pericolosi, poiché appaiono tollerabili. Resta, alla fine, la domanda: “Se tutto ciò che questo discorso esprime lo conosciamo a memoria, perché non siamo riusciti a porvi un rimedio?”. E con questa domanda la rappresentazione ripiomba nel buio da cui e venuta".

Voto 8 

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