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Eppure ero un puro
Di e con Nicola Pecci
Al pianoforte Andrea Benassai
Visto al Teatro Magnolfi il 29 aprile 2011

 




                     di Tommaso Chimenti


Lo scorrere del giorno visto come una dolorosa e faticosa crescita paragonata all’incedere incipiente dell’esistenza. La mattina, l’infanzia, il cercare di essere presentabile, l’adolescenza, la sera da completo scuro d’accettazione, l’età adulta. Nicola Pecci gioca sul filo dell’equilibrio tra canzone (tutte di suo pugno, come un concept album, di quelli che non se ne fanno più), teatro e letteratura. I suoi monologhi, tra un canto accompagnato dal piano e l’altro, l’autobiografismo trasuda e cola, ma mai è sprecato, sono una caccia al tesoro tra le citazioni, gli incipit folgoranti di romanzi. Pavese, Conrad, Dostoevskij. Pecci è il proprio Delitto ed il proprio Castigo. L’esterno è il suo usuraio, aguzzino, carnefice. Uccidersi, per riprodursi all’infinito, e punirsi per questo: impeccabile perfezionista, insoddisfatto. Fare della propria vita letteratura. Impossibile. Forse ci sono riusciti soltanto i poeti maledetti. Ma Pecci ha troppo phisique du role, troppo sorriso sornione, troppo charme per l’ autodevastazione alla quale inneggia che diventa, in società, zavorra per i propri sogni di disfattismo, annientamento dei simboli precostituiti, distruzione dell’inutile. E questo è un limite, e questo lo ha salvato da quella autodistruzione che proprio lui richiama in una delle prime song da voce roca ed occhi chiusi. Uno stile febbrile, sopra le righe per un canovaccio che ripercorre le tappe dell’uomo, del bambino che era, come il manifesto dello spettacolo ci suggerisce. C’è chi puro non è mai stato, nemmeno in fasce. Che poi la purezza non è un dato oggettivo positivo, c’è chi non può farne a meno, ed allora è natura, c’è chi la sceglie per paura ed inconsolabili sensi di colpa, ed allora è codardia e viltà. Lo squalo uccide e rimane puro. Fai ciò che vuoi, consiglia Pecci, come un guru, ad un certo punto. Uccidi, prendi, ruba tutto quello che ti serve per una visione della vita, condivisibile, di mordi e fuggi, del doman non v’è certezza. Presente, presente ed ancora fortissimamente presente. Che il futuro esiste solo nell’attimo nel quale diventerà presente. Pancia piena, nessun rimorso, tanti rimpianti. Un occhio allo ieri, a quella nostalgia canaglia, di quando avevi tutta la vita davanti, e tutto poteva ancora accadere e succedere, e potevi ancora essere tutto. Adesso il dado è tratto, le porte chiuse, il futuro è un imbuto, un tunnel, nel quale è più semplice, anche se tagliente di rovi, andare avanti graffiandosi a tentoni, che tornare indietro. Pecci si fa la toeletta, beve il caffé dal bidé, nel quale tenta di annegarsi, si fa la barba (radendosi si squarcia involontariamente mento e mascella, il sangue versa copioso e “teatrale”, e si ha come l’impressione di assistere ad una performance di body art, di teatro fisico alla maniera splatter di Franko B) si mette sulla tazza del water, il tutto in un bianco pallido che si staglia tra i colori delle copertine dei libri che cerca alla rinfusa per scovare le parole, le perifrasi ellittiche, le sillabe autistiche che lo ossessionano, che ritornano, che si susseguono nella sua testa, che si rincorrono senza dargli tregua. Siamo anche ciò che abbiamo letto, la fantasia è comunque un buon modo di viaggiare, un’esperienza di conoscenza che per osmosi passa dal personaggio di carta, o di celluloide, nei nostri arti, come se le avessimo realmente fatte noi quelle azioni. Un recital, forse troppo frettoloso e veloce, saltato in padella, nel cercare il giusto ritmo, a tratti commosso, mosso da una vera urgenza di estrema solitudine e disagio nel dover essere qualcosa per qualcuno e nell’accettarsi per quello che si è. Come un uomo tirato per le braccia da due cavalli imbizzarriti. Come il fegato di Prometeo mangiato ogni notte dall’aquila. Un po’ Endrigo, slanci alla Tenco (“Vedrai” potrebbe riassumere la piece).

Voto 7 + 

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