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  05/05/2024 - 10:47

 

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Compagnia Macellerie Pasolini
Love car
Drammaturgia Ennio Ruffolo. con Cristina Matta e Romano Treré, drammaturgia sonora Fabio Fiandrini luci Leonardo Principe scenica Sara Garagnani
Visto a Kilowatt Sansepolcro, il 23 luglio 2010

 




                     di Tommaso Chimenti


"Sì viaggiare evitando le buche più dure, senza per questo cadere nelle tue paure, gentilmente senza fumo con amore, dolcemente viaggiare, rallentare per poi accelerare con un ritmo fluente di vita nel cuore, gentilmente senza strappi al motore. E tornare a viaggiare e di notte con i fari illuminare chiaramente la strada per saper dove andare” (“Si, viaggiare”, Lucio Battisti). “Guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere se è così difficile morire” (“Emozioni”, Lucio Battisti).

I due “macellai” stanno sulla scena. Aprono il sipario di cellophane, come lenzuolo mortuario sul cadavere ancora caldo, che copre la macchina sottostante, che ad ogni replica prendono “in prestito” in loco. Sono presenti kantorianamente all’inizio ed alla chiusa. Quando se ne vanno continuano ad aleggiare. La loro presenza è pesante, ci permettono di guardare dal buco della serratura, in questo spaccato tenero di vita, di respiri intimi e delicati. Sono kapò e ruffiani che aprono il varco alla nostra sconfinata curiosità di morte che ci rende vivi. E’ il primo lavoro di una trilogia: questo “Love car”, che gira sull’eutanasia, è situato in una macchina, il secondo, incentrato sulla pedofilia, sarà ambientato in un furgoncino con un carretto, il terzo su una moto. Non tanto il viaggio, quanto l’andare verso, il percorso accidentato, le curve irrisolte. Atmosfera da “Sorpasso”, ma sarebbe stato troppo didascalico, anche se la mente ci vola, anche se l’aspettativa sogna l’argano. I due amanti di Pasolini (la loro cifra stilistica prevede l’inserimento costante di stralci cinematografici del regista di Casarsa, un po’ come il salame di Jacovitti) hanno grembiuli sporchi di sangue: potrebbero essere cuochi che nutrono, chirurghi che salvano, infermieri che curano. Vita allo stato puro. Invece sono torturatori certificati dalla legge, boia che conoscono le carte che hai in mano, aguzzini legittimi e governati dalla legislazione che sanno la fine, angeli neri che ci portano in gita nel dolore. Salite gente che parte il tour nella sofferenza (altrui). In audio si alternano la freddezza di una voce da cavo, quella di Piergiorgio Welby che ha deciso di autosospendersi le cure (è un omaggio diretto anche ad Eluana Englaro), e quella calda di Mastroianni in “Otto e mezzo” o Ninetto Davoli in una scena pasoliniana di “Che cosa sono le nuvole”. Il cuore pulsa, batte forte e sano, prima, fino all’encefalogramma piatto, poi. Voce meccanica, robotizzata, vita non vitale, esistenza sintetica, artefatta, anima compressa e bloccata in ganci e fili e flebo, vita ingabbiata in un corpo contenitore che non ha altra funzione che limitare, fare da confine invalicabile, sentinella incorruttibile. Cosa c’è di naturale nell’accanimento terapeutico, nel mantenere vive, anche involontariamente, attraverso la tecnologia e la scienza le funzioni biologiche se non una morte artificialmente rimandata? In macchina due anziani, (potrebbero essere i Romeo e Giulietta della terza età messi in scena da Federico Tiezzi nelle sue ultime “Scene da”), marito e moglie anche nella vita, ridono, si divertono fanciulleschi, provano amore per il tempo che gli è concesso, godono della presenza dell’altro, del corpo dell’amato da una vita in un amplesso sensuale, pieno, intenso, immenso, come se ne sono visti pochi altri in teatro. Un incontro che pacifica, silenzioso (“La parola toglie”, dicono gli autori) ma che regala un senso di pace profonda, tutt’altro che rassegnata, una forza interiore che si autoalimenta di sguardi, di mani, di quella complicità esperienziale, fattiva, lottata nel passaggio delle rughe autografate. La moglie poi prende le sembianze della Winnie del beckettiano “Giorni felici”: una pistola può essere un buon antidoto alla sofferenza, regalando una salvezza atea.

Voto 8 

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