"Sì viaggiare
evitando le buche più dure, senza per questo cadere nelle tue paure, gentilmente
senza fumo con amore, dolcemente viaggiare, rallentare per poi accelerare con
un ritmo fluente di vita nel cuore, gentilmente senza strappi al motore.
E tornare a viaggiare e di notte con i fari illuminare chiaramente la strada
per saper dove andare” (“Si, viaggiare”, Lucio Battisti).
“Guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere se è così difficile
morire” (“Emozioni”, Lucio Battisti).
I due “macellai” stanno sulla
scena. Aprono il sipario di cellophane, come lenzuolo mortuario sul cadavere
ancora caldo, che copre la macchina sottostante, che ad
ogni replica prendono “in prestito” in loco. Sono presenti kantorianamente
all’inizio ed alla chiusa. Quando se ne vanno
continuano ad aleggiare. La loro presenza
è pesante, ci permettono di guardare dal buco della serratura, in questo
spaccato tenero di vita, di respiri intimi e delicati. Sono kapò e ruffiani che
aprono il varco alla nostra sconfinata curiosità di morte che ci rende vivi. E’
il primo lavoro di una trilogia: questo “Love car”,
che gira sull’eutanasia, è situato in una macchina, il secondo, incentrato
sulla pedofilia, sarà ambientato in un furgoncino con un carretto, il terzo su
una moto. Non tanto il viaggio, quanto l’andare verso, il
percorso accidentato, le curve irrisolte. Atmosfera da “Sorpasso”, ma
sarebbe stato troppo didascalico, anche se la mente ci vola, anche se l’aspettativa sogna l’argano. I due amanti di Pasolini (la loro
cifra stilistica prevede l’inserimento costante di stralci cinematografici del
regista di Casarsa, un po’
come il salame di Jacovitti)
hanno grembiuli sporchi di sangue: potrebbero essere cuochi che nutrono,
chirurghi che salvano, infermieri che curano. Vita allo stato puro. Invece sono
torturatori certificati dalla legge, boia che conoscono le carte che hai in
mano, aguzzini legittimi e governati dalla legislazione che sanno la fine,
angeli neri che ci portano in gita nel dolore. Salite gente che parte il tour
nella sofferenza (altrui). In audio si alternano la freddezza di una voce da
cavo, quella di Piergiorgio Welby che ha deciso di
autosospendersi le cure (è un omaggio diretto anche ad
Eluana Englaro), e quella
calda di Mastroianni in “Otto e mezzo” o Ninetto
Davoli in una scena pasoliniana di “Che cosa sono le nuvole”. Il cuore pulsa,
batte forte e sano, prima, fino all’encefalogramma piatto, poi. Voce meccanica,
robotizzata, vita non vitale, esistenza sintetica, artefatta,
anima compressa e bloccata in ganci e fili e flebo, vita ingabbiata in un corpo
contenitore che non ha altra funzione che limitare, fare da confine
invalicabile, sentinella incorruttibile. Cosa c’è di naturale nell’accanimento
terapeutico, nel mantenere vive, anche
involontariamente, attraverso la tecnologia e la scienza le funzioni biologiche
se non una morte artificialmente rimandata? In macchina due anziani,
(potrebbero essere i Romeo e Giulietta della terza età
messi in scena da Federico Tiezzi nelle
sue ultime “Scene da”), marito e moglie anche nella vita, ridono, si divertono
fanciulleschi, provano amore per il tempo che gli è concesso, godono della
presenza dell’altro, del corpo dell’amato da una vita in un amplesso sensuale,
pieno, intenso, immenso, come se ne sono visti pochi altri in teatro. Un
incontro che pacifica, silenzioso (“La parola toglie”, dicono gli autori) ma
che regala un senso di pace profonda, tutt’altro che rassegnata, una forza
interiore che si autoalimenta di sguardi, di mani, di quella complicità
esperienziale, fattiva, lottata nel passaggio delle rughe autografate. La
moglie poi prende le sembianze della Winnie del
beckettiano “Giorni felici”: una pistola può essere un buon antidoto alla
sofferenza, regalando una salvezza atea.
Voto
8