Nelle mie ripetute immersioni nella sua scrittura, ho capito che a un certo punto arrivi a conoscere Kafka meglio di te stesso. Ha avuto un'implacabile capacità d'analisi, in tutta la sua interminabile scrittura, lettere, diari, romanzi: e attraverso di lui arrivi a te. Allora vale la pena, eccome, portare sulla scena "Il processo". Semmai rimane il rimpianto per tutto quello che si lascia fuori".
E' davvero uno spettacolo coinvolgente quello che Giorgio Barberio Corsetti crea intorno a Kafka: la sua è un'immersione totale nel Processo, più che un'interpretazione del celebre romanzo, eppure i gesti degli attori, il succedersi delle scene restituiscono allo spettatore quanto di kafkiano ci sia nella vita di tutti i giorni. E la stessa vita è vista e tratteggiata come una sentenza. Appellabile o meno? Dipende da noi, ma anche dalla società che ci circonda. Siamo noi che costruiamo la burocrazia, i processi, ma anche i nostri sensi di colpa.
"La cosa che più colpisce nella scrittura di Kafka è che riesce a frantumare la superficie levigata della quotidianità e a trovarvi la tragedia - spiega Giorgio Barberio Corsetti -. La scrittura scenica si presta così a essere composta come un ideogramma che è al tempo stesso pittura, poesia, segno, gesto. L'altro aspetto è che la tragedia passa sempre attraverso una profonda ironia, in una comicità che vede il lato ridicolo e terribile insieme".
L'evento ( in scena alla Leopolda fino al 15 maggio) che ha aperto Fabbrica Europa 999 e chiuso in bellezza la stagione del Teatro della Pergola sembra lo spettacolo ideale per esaltare le scabre e maestose architettura della Leopolda. E l'ex stazione fiorentina sembra raccontare una storia nella storia, con le sue ombre, con quell'acustica che rende reale anche la frase più recitata, inquietante l'urlo sordo delle fantasie di Joseph K., avvolgente una colonna sonora (musiche originali di Daniel Bacalov) creata dal vivo da un trio acustico e misteriosi i frammenti di videoproiezioni, le videoinstallazioni (di Fabio Jaquone), le sculture di ferro, stoffa e legno che caratterizzano le varie scene della narrazione come dei totem post industriali. In questo allestimento essenziale, eppure forte, efficace (pensato per spazi non convenzionali), gli angoli e gli spazi della Leopolda si trasformano in altrettanti luoghi di una città mai nominata, mai tratteggiata fino in fondo. Proprio come in un sogno, come in un incubo che ci riguarda molto da vicino. Il risultato è una sinfonia visionaria di musica, parole e spazi, in cui il pubblico si sente parte integrante, anche quando viene accompagnato a rimirare la scena da diverse prospettive, grazie a un gioco di scenografie mobili in continua mutazione.
Voto
8