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Due lupi
Regia, coreografia e spazio Virgilio Sieni
Liberamente tratto da Il grande quaderno di Agota Kristof. Prima parte della Trilogia della città di K. Con Luisa e Silvia Pasello, costumi Laura Dondoli, realizzazione scene Leonardo Bonechi, Lorenzo Pazzagli. Luci e fonica Giovanni Berti, audio Matteo Ciardi, allestimento Stefano Franzoni
Visto al Festival Fabbrica Europa, Firenze, Cango, Cantieri Goldonetta, il 19 maggio 2011

 




                     di Tommaso Chimenti


Ho sempre pensato che ne La città di K, la kappa rappresentasse Kafka. Il Castello. Il Processo. Come i due ragazzi che, nel romanzo della Kristof, si trovano ad essere accusati, a doversi discolpare e difendere dalla vita, per aver commesso un unico peccato e crimine: l’essere nati. Sono due ma sembrano uno. Sono gemelle, funzionali al caso, al testo. Anzi da fratellini a gemelle over cinquanta, il passo, i passi, sono molteplici. Rimandi, riflussi, postposizioni, richiami allo specchio, salti. Le gemelle Pasello, corroboranti, si muovono unite, nella penombra assordante di una cappa-tappeto musicale, dove si scorge uno Stabat Mater, che ammorba, ammanta e affloscia, come nube irrespirabile a schiacciare, a togliere l’aria, velate come da burqa, bendate per non vedere l’orrore che si para loro davanti, per non riconoscere la realtà che si configura come vera, per rimanere nella bolla di sapone del gioco, senza faccia, dechirichiane. C’è la guerra intorno, testimoniata da un carro armato a grandezza realistica (come non vederci piazza Tien’anmen), didascalico e potente al tempo stesso, ingombrante e simbolo di se stesso da divenire poetico, spiazzante, evocativo non di un solo significato. Una guerra che fa capolino dalla tenda, che piano, piano, si affaccia, si accenna, per poi uscire prepotente, canna del missile fallica ben puntata in avanti, per distruggere il futuro, che si disvela da dietro il drappo sottile che scende dall’alto. Le frasi secche dei due fratelli (Hansel e Gretel? Ammaniti?) gemelle, bambole rotte di un carillon, vanno in circolo, ritornano ripetitive, si riprendono, come un rastrello le foglie secche, si ricercano, a creare un limbo di polvere e sogno lattiginoso, sospeso nel tempo di una sopravvivenza diventata lager, di una vita-gulag dove le privazioni, le autoflagellazioni, le punizioni, le mancanze, la sporcizia, metaforica e fisica, la miseria tangibile, le mutilazioni alle quali si sottopongono per meglio resistere e reagire all’ostile esterno, sono necessarie, utili e adeguatamente efficaci allo scopo della Resistenza. Muoiono per poter vivere. Bambini (le Pasello sono tirate, magre, fisicamente tese, pronte, di nervi, asciutte) inviati alla nonna (Lupa romana che allatta Romolo e Remo) per poter sfuggire alla macabra danza bellica, alla falce che taglia il fieno fresco. Nonna-strega della fiabe che li tempra abbassandoli al grado di fiere da istinti primordiali. Si muore un po’ per poter vivere. Come un corpo solo, parlano all’unisono, agiscono. I fiori nascono soltanto sulle bende, per coprire, sui regali, che non avranno, sugli abiti, da serve. Il moto è ossessionato, preciso, pungente da nuoto sincronizzato, l’intercalare intrecciato, gli ansimi catturano, gli aliti-rantoli sottolineano noir, l’elenco degli odori fa sprofondare nell’abisso. L’uomo animale si adatta ad ogni tipo di habitat. Per non soccombere i bambini-gemelle, ormai attraversato il bosco dell’innocenza perduta, il Paradise Lost, sono divenuti bestie azzannatrici, lupi mannari, di un cervo spolpato fino allo scheletro (roba da Specola), daino che è libertà, senza recinti, senza confini, che è gioco e illusione di corsa a perdifiato, senza padroni, senza regole. Hanno vinto la vita. Sono morti prima di morire. Bambini che per transfer si sono trasformati in nonne, tanto il gioco della vita ha preso il sopravvento. Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Nessuno, qui, balla coi lupi.

Voto 7 ½ 

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