La
trasposizione tedesco- napoletana di quel Goethe che nel suo viaggio in Italia toccò appunto
anche Napoli, dell'eroe mortale che si lasciò attrarre e carpire dal
sovrannaturale maligno barattando l'anima con la conoscenza, diventa, grazie
alla regia da Presepe partenopeo di Arturo
Cirillo ed ad un manipolo d'attori spassosamente mediterranei e caciaroni (al limite dell'incomprensibile), una sorta di
Cirano.
L'amante
(Faust) e l'amata (Margherita) divisi da una follia pirandelliana (costruita o veritiera)
e dalla maschera di
Pulcinella (Sabrina Scuccimarra pirotecnica e
saltimbanco giocoso con anima da Pierrot)
risolvendosi nell'ennesimo baratto, in quello scambio feroce e infantile,
canzonatorio, consolatorio e terapeutico, che fa diventare la realtà una
commedia dell'arte con parti scritte a braccio in canovacci all'impronta, con
recite precise ed un finale che tutti conoscono ed intuiscono, pubblico
compreso, tranne l'allocco, il fesso protagonista di
turno.
Proprio lui che
si sentiva padrone ed ispiratore del suo intorno visionario
si trova beffato e gabbato.
Ma è proprio questo inganno ai suoi danni la sua salvezza che lo fa
rinsavire, o impazzire i compagni, e la sua vittoria riuscendo a spostare la
soglia del consentito fino ad appiattirla, esaltarla, in una mostruosa
girandola pitagorica, di gag e contromosse che tutti giustificano, nell'assurdo
del senza senso, che quasi ci viene da pensare che anche il nostro Don Fausto
non ci giochi sulla e con la sua presunta pazzia.
E se fosse solo un vezzo per mutare, e camuffare, un mondo insoddisfacente e
tornare dentro quell'uovo, rotto ma conservato scudo
fetale, rigenerato paradossalmente dalla malattia, o dalla presunzione di non
normalità o superiorità.
Una macchina della Tac, l'uovo ancestrale, che fa emergere il lato
irrisolto di ognuno.
Voto
7 ½