La seconda parte del reportage di
Tommaso Chimenti di www.scanner.it per OctoberTest.
Sul tavolo della regia frutta e
biscotti in sacchetti trasparenti. Nell’aria si spande un odore di mandarini. Che
fa casa, fa famiglia, fa insieme. Il tutto è colloquiale, informale. I ragazzi, ormai uomini e donne, arrivano prima per riscaldarsi. Professionali e precisi quelli di Jan Lauwers. Oggi
parleremo di loro, che senza non si farebbero i laboratori. Che senza gli
attori, i danzatori, non ci sarebbe il teatro. Sono tutti al muro, prima di
cominciare il nuovo esercizio. Sono belli, così tutti insieme, da fotografia, di quelle da appendere, da lasciare lì anche quando si
sbiadiscono. Sono in attesa, maglie colorate come se a metterle una accanto
all’altra fosse stato un ritrattista non vedente. Braccia abbassate lungo il
corpo come proboscidi sull’erba, i piedi leggermente divaricati che sembrano lancette
di un orologio, gli stomaci che si innalzano ed
abbassano come marea in un respiro profondo. E’ un affresco impegnato di spalle
dritte e petti in fuori. Come in un faccia a faccia, come ne “I soliti sospetti”. Kuska è egocentrica, vede un microfono e ci si fionda, come un richiamo più forte di lei, una
calamita alla quale non sa resistere. E’ forte, energica, una leader. Emmanuelle
ha una maglia rosa di qualche taglia più larga, è longilinea, una silhouette
sospesa, appesa a due gambe da trampoliere mentre rotea in passi di capoeira,
nel suo volto scavato, negli zigomi sporgenti. Benjamin è flessuoso, snodabile,
come la fiammella di una candela, come un pennello esile, un fisico asciutto su
aste da cavalletta. Paloma è spagnola, ha le
ginocchiere rosa da pallavolista, si getta a capofitto nelle situazioni, non
conosce la parola timidezza, parla un inglese pessimo ma ha una simpatia innata contagiosa. Nella sua improvvisazione ha un
vestito-corazza di cartone legato con spago da emigranti, un po’ black block,
un po’ saio francescano. Dice: “La paura è il peggior peccato capitale, la
paranoia il peggior sentimento”. Nicholas è sudcoreano; ha in sé tutta la compostezza orientale che esprime nella sua performance
sull’identità rimanendo fermo, immobile e muto per minuti interminabilmente
evocativi e lancinanti. Lauwers ha una parola per tutti, ma soprattutto vede,
guarda con attenzione, osserva, poi consiglia, dice, chiede, s’interroga,
spiega, semina complimenti come appunti critici. Vuole intensità nel volto,
nell’espressione facciale. La sua risata è piena, “grassa”, di gusto.
Stefan è deciso, rigoroso, risoluto. Catherine ha schiena larga e la risata roca, Carlota ha folti ricci rossi, è una pentola a pressione di muscolatura compatta pronta ad
esplodere, Stefanie porta stranamente i tacchi,
abitini succinti e vistosi, dalle tinte accese, è la prima che porta sul palco
un suo lavoro dove lo smalto è sangue, la terra sono escrementi, le rose secche
invece sono rose dai petali decadenti, il suo corpo è nudo e s’impiastriccia
nel magma. Florian pare un rugbista, è scapigliato e
scarmigliato, muscoloso e muscolare, esonda di
bicipiti. Francesca ha humour da vendere, è sfacciata, sa stare sul
palcoscenico, Nina ha capelli di paglia, è italiana ma vive a Parigi, più
attrice che danzatrice, Marta è invece timida, non si propone, sta nell’ombra,
i capelli sparati, sempre in nero. Lydia è siciliana, ha una voce splendida che
sa modulare ed usare alla perfezione. Anche Lauwers se ne è
“innamorato”. Volchitza danza in sottoveste in una sua drammaturgia sulla libido, Meredith è statunitense, dissacrante come Woody
Allen, Meirav ha la maglia gialla, è timida e nel
microfono la sua voce rimane flebile, Karme è
spagnola, capelli come spaghetti e lentiggini in abbondanza, nel suo pezzo
è in chat persa in un amore a distanza che risolve in un fallimento. Si lavora sui conflitti, sugli scontri, sulle liti. Sull’immissione in un contesto idilliaco, bucolico, di un elemento esterno di rottura. Per registrare le reazioni, i cambiamenti, le virate. La parola di oggi è “ensemble”. “You can do much better”, stimola gli
allievi, il Maestro. Ma è anche entusiasta di loro, del loro lavoro. E’ ossessionato dalla voce. Li fa provare e riprovare. A
parlare col microfono, davanti sul proscenio, in fondo alle quinte. Lui si
sposta in platea, sempre più indietro, fino all’ultima fila. Che già lo diceva De Gregori ne
“La valigia dell’attore”. Ripete: “Very good”. Frasi
da appuntarsi: “Cerchiamo di trovare una nuova ragione per fare arte”. “La
tragedia a teatro è impossibile perché è tragica la vita”. Sottoscriviamo.
Voto
8