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  04/05/2024 - 16:37

 

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Auntie and me
Mia zia e io, di Morris Panych
Traduzione Valentina Rapetti, regia e spazio scenico Fortunato Cerlino. Con Alessandro Benvenuti e Barbara Valmorin, core trainer Andrea Calbucci, aiuto regia Ester Tatangelo, disegno luci Gianluca Cappelletti disegno audio Mirco Mencacci, musiche Peppe Bruno, costumi Oriana D’Urso, durata 1h 40'
In prima nazionale, al Teatro Dante di Campi Bisenzio venerdì 11 e sabato 12 dicembre 2009

 




                     di Tommaso Chimenti


Unica protagonista la solitudine. Divisa, separata nelle sue due facce: la logorrea di un nipote, Alessandro Benvenuti che rinverdisce la sua vena noir e thriller (“Come due gocce d’acqua”) grazie alla regia fumettistica di Fortunato Cerlino, che prende a pretesto la malattia e l’imminente morte di una lontana zia, Barbara Valmorin silenziosa, bloccata e allettata come Winnie in “Giorni felici”, per abbandonare quel mondo che non lo ha mai capito ma anzi ferito e frustrato, e l’immobilismo, il mutismo dell’anziana signora. Sono “Auntie and me”, la zia ed io, entrambi sono chiusi nel loro mondo, vogliono aprirsi ma appena lo fanno, o tentano, subito si ritraggono impauriti nel loro guscio. Hanno bisogno dell’altro, ma non (se) lo vogliono ammettere. Il testo di Morris Panych è un gioco alla scarnificazione dell’altro, una battaglia di abbattimento fatta di piccole atrocità quotidiane, uno stillicidio di battute sarcastiche, di stilettate a tradimento, di colpi bassi, di verità sulle quali soprassedere volentieri, di menzogne a ferire. Le parti si scambiano e il boia diventa vittima in questa casa pinteriana che diventa bunker e trincea, isolamento volontario e straniamento, una guerriglia della quale almeno se ne conoscono le regole, molto più docile, addomesticabile, malleabile e confortevole della guerra senza confine che si agita fuori dalle persiane sempre abbassate, dalla porta chiusa a doppia mandata. Come se il dolore non riuscisse a penetrare. E se la zia doveva morire di lì a pochi giorni, l’attesa si prolunga e diventa smania di volerla vedere seppellita da parte del nipote, ansia spasmodica che frigge in cattiveria, in scambi infiniti di un ping pong a rinfacciarsi, con mille parole o soltanto con uno sguardo acre, atteggiamenti e scuse, rimedi e ritorni, carezze mai date e abbracci non ricevuti. E’ il loro modo di volersi bene. Finalmente hanno un nemico al quale attingere, sul quale riversare l’odio covato in segreto e tenuto malamente a bada con ansiolitici o con il volume della televisione troppo alto, di giornate passate a rispettare ordini o tra letto e divano, comunque tra giornate tutte uguali. In definitiva convivono, sono una coppia di fatto. Lui è un perdente nato, commesso viaggiatore alla Miller, un po’ Fantozzi, un po’ Willie il coyote, che ha sempre scelto di non scegliere che è la strada più breve ma quando il conto si presenta è sempre più salato. Il nipote è infelice, umiliato, si autocommisera. Delusioni, illusioni, aspettative, sconfitte si trasformano presto in rabbia. Ogni frase è amara, irritante e scorbutica, ma altamente ironica nella sua drammaticità, acida e caustica, mortale ma mediocre. Passano le stagioni ed ormai vivono in simbiosi, che ogni carnefice senza torturato non ha mestiere né può dare senso alla sua esistenza. Amore e morte, eros e thanatos si aggrovigliano e come fili di lana si intrecciano senza più riuscire a disincagliarli. La vita vuole entrare ma il ricordo è orribile, la disperazione allucinata, la solitudine estrema, l’impopolarità gravita e geme vendetta. Sono aggrappati forsennatamente alla vita ed è proprio questo, unito al cinismo sparso come ultima arma di salvezza e protezione dall’amore cercato, che non permette ad entrambi di vivere e lasciarsi andare. Hanno paura di perdere ancora e non riescono a prendere, la vita, la speranza, il futuro, un domani qualsiasi.

Voto 7 ½  

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