Auntie and me
Mia zia e io, di Morris Panych
Traduzione Valentina Rapetti, regia e spazio scenico Fortunato Cerlino. Con Alessandro Benvenuti e Barbara Valmorin, core trainer Andrea Calbucci, aiuto regia Ester Tatangelo, disegno luci Gianluca Cappelletti disegno audio Mirco Mencacci, musiche Peppe Bruno, costumi Oriana D’Urso, durata 1h 40'
In prima nazionale, al Teatro Dante di Campi Bisenzio venerdì 11 e sabato 12 dicembre 2009
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Unica protagonista la solitudine. Divisa, separata nelle sue due facce: la logorrea di un nipote, Alessandro Benvenuti che
rinverdisce la sua vena noir e thriller (“Come due gocce d’acqua”)
grazie alla regia fumettistica di Fortunato Cerlino,
che prende a pretesto la malattia e l’imminente morte di una lontana zia,
Barbara Valmorin silenziosa, bloccata e allettata
come Winnie in “Giorni felici”, per abbandonare quel mondo che non lo ha mai capito ma anzi ferito e frustrato, e
l’immobilismo, il mutismo dell’anziana signora. Sono “Auntie and me”, la zia ed io, entrambi sono chiusi nel
loro mondo, vogliono aprirsi ma appena lo fanno, o tentano, subito si
ritraggono impauriti nel loro guscio. Hanno bisogno dell’altro, ma non (se) lo
vogliono ammettere. Il testo di Morris
Panych è un gioco alla scarnificazione dell’altro,
una battaglia di abbattimento fatta di piccole atrocità quotidiane, uno
stillicidio di battute sarcastiche, di stilettate a tradimento, di colpi bassi,
di verità sulle quali soprassedere volentieri, di menzogne a ferire. Le parti
si scambiano e il boia diventa vittima in questa casa pinteriana
che diventa bunker e trincea, isolamento volontario e straniamento, una
guerriglia della quale almeno se ne conoscono le regole, molto più docile,
addomesticabile, malleabile e confortevole della guerra senza confine che si
agita fuori dalle persiane sempre abbassate, dalla porta chiusa a doppia
mandata. Come se il dolore non riuscisse a penetrare. E se la zia doveva morire
di lì a pochi giorni, l’attesa si prolunga e diventa smania di volerla vedere
seppellita da parte del nipote, ansia spasmodica che frigge in cattiveria, in scambi
infiniti di un ping pong a
rinfacciarsi, con mille parole o soltanto con uno sguardo acre, atteggiamenti e scuse, rimedi e ritorni, carezze mai date
e abbracci non ricevuti. E’ il loro modo di volersi bene. Finalmente hanno un
nemico al quale attingere, sul quale riversare l’odio covato in segreto e
tenuto malamente a bada con ansiolitici o con il volume della televisione
troppo alto, di giornate passate a rispettare ordini o tra letto e divano,
comunque tra giornate tutte uguali. In definitiva convivono, sono una coppia di
fatto. Lui è un perdente nato, commesso viaggiatore alla Miller, un po’ Fantozzi, un po’ Willie il coyote, che ha sempre scelto di non scegliere
che è la strada più breve ma quando il conto si presenta
è sempre più salato. Il nipote è infelice, umiliato, si autocommisera.
Delusioni, illusioni, aspettative, sconfitte si
trasformano presto in rabbia. Ogni frase è amara, irritante e scorbutica, ma altamente ironica nella sua drammaticità, acida e caustica,
mortale ma mediocre. Passano le stagioni ed ormai
vivono in simbiosi, che ogni carnefice senza torturato non ha mestiere né può
dare senso alla sua esistenza. Amore e morte, eros e thanatos si aggrovigliano e come fili di lana si
intrecciano senza più riuscire a disincagliarli. La vita vuole entrare ma il
ricordo è orribile, la disperazione allucinata, la solitudine estrema,
l’impopolarità gravita e geme vendetta. Sono aggrappati forsennatamente alla
vita ed è proprio questo, unito al cinismo sparso come ultima arma di salvezza
e protezione dall’amore cercato, che non permette ad entrambi di vivere e
lasciarsi andare. Hanno paura di perdere ancora e non riescono a prendere, la vita,
la speranza, il futuro, un domani qualsiasi.
Voto
7 ½
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