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Alberto Severi
Novelli Vague
Nuova drammaturgia in lingua Toscana fra tradizione e discontinuità, La frequente collaborazione fra autori, registi e attori, come fra Chiti e Benvenuti, Chiti e Zavagli, Benvenuti e Zavagli, Chiti e Zannoni, Zannoni e Cassi, Zavagli, Zannoni e Severi, Severi e Chiti, Cassi e Severi
Titivillus edizioni, 2007, pag 390, 15 €

 




                     di Tommaso Chimenti


Chi lo chiama vecchio, chi desueto, chi ancora antico. Altri arcaico. Di sicuro è vintage. E’ lo spirito che aleggia e traspare dal volume a cura di Alberto Severi, “Novelli Vague”, sulla drammaturgia in lingua toscana, pubblicato nell’ottobre 2007 da Titivillus edizioni. Dalla Nouvelle Vague all’essenza di Augusto Novelli (non se la prenda a male Novello) padre dell’“Acqua cheta” e di “Gallina vecchia”. In piedi: Maria Cassi, Marco Zannoni, lo stesso Severi; accosciati Benvenuti, il capitano Ugo Chiti, Leonardo Brizzi e Nicola Zavagli, lo “straniero” perché riminese. Il recupero della lingua di una Firenze perduta troppo spesso fa rima, nell’immaginario collettivo, con personaggi come Ceccherini che travalicano nel triviale, sforano nella componente più rozza e grossolana della calata dei quartieri. Anche il Calcio in Costume dei quattro colori ha perso qualsiasi identità e dignità, inchinandosi alle logiche del degrado violento e del villano. Da una parte oggi il vernacolo è visto come slang sboccato, dall’altra resiste la corrente che porta a Carlo Monni ed ancor più su a Benigni. Senza, però, scordarsi i padri come Palazzeschi ed interpreti cari come Giovanni Nannini. Al cinema resiste il mito di “Amici miei”. Poco di Montagnani. Il vernacolo, che non deve essere scambiato con la bestemmia come intercalare, è come una buona pappa al pomodoro, ha il sapore rustico di una bistecca con l’osso, il gusto della cucina povera della ribollita. Anche se adesso, sempre in nome del vintage, al Cibreo o da Pinchiorri per un piatto di trippa o lampredotto si deve strusciare la carta di credito. Non cipressi ma olivi, grazie. A Firenze il teatro vernacolare sopravvive grazie al Teatro del Cestello, al Teatro Nuovo di Sergio Forconi, ma soprattutto al Pan Nostrale di Rifredi. Molto spesso il vernacolo, che non significa infarcire i testi di “grullo” o di “bischero”, è trattato con snobismo e molto spesso a ragione: il becero, la maleducazione sono sempre dietro l’angolo ed è un percorso rischioso camminare sul filo tra l’italiano ed il dialetto lasciando da parte la tentazione del facile turpiloquio. Alcuni ci riescono e sono propri gli autori dei testi contenuti in questo davvero ben fatto, bianco e viola (non poteva essere altrimenti) “Novelli Vague” (edito da Titivillus, 15 euro, 390 pag), rifinita con un’ampia analisi esaustiva di Severi, una prefazione del critico teatrale e direttore del Festival di Radicondoli Nico Garrone ed una post di Angelo Savelli: “La Soramoglie” di Chiti e “L’Atletico Ghiacciaia” di Benvenuti, “Grogrè” di Zannoni, che pochi giorni fa è stato ospitato ad Istanbul, “I Marziani” di Severi, “La cameriera di Puccini” di Zavagli, “Apollo” di Cassi, Brizzi e Zannoni.

Voto 7 

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