Autore pressoché sconosciuto in Italia, pluripremiato ai festival, Shohei Imamura torna alla ribalta - dopo la parentesi di Dr. Akagi - per raccontarci la storia di una donna "speciale", Saeko (Misa Shimizu). Una donna che è, letteralmente, una sorgente d'acqua e quest'acqua ha bisogno di uscire: per poterlo fare ha bisogno di fare l'amore. A dire il vero le donne, nei suoi film sono sempre speciali: mai stereotipate, mai passivamente succubi, come vuole la tradizione giapponese, anche nei maestri (Mizoguchi e Kurosawa in primis). D'altra parte, non è certo la prima volta che il regista si serve di simbolismi: basti pensare a opere come Porci e corazzate (1961) o Cronache entomologiche del Giappone (1963) per rendersene conto. Qui però il simbolo è il centro stesso dell'opera, ne costituisce l'intreccio e ne custodisce il messaggio. L'acqua, da sempre immagine di vita e di rinnovamento, è quanto necessita a Koji (Yosuke Sasano), il protagonista maschile, per rinfrescare il suo spirito schiacciato dalla quotidianità. L'uomo, infatti, dopo un momento di stupore, è attratto da Saeko proprio per questa sua peculiarità. Per lei giunge a costruirsi una nuova vita, trasformandosi da impiegato a pescatore (un lavoro ancora a contatto con l'acqua), pronto a correre da lei ad ogni suo richiamo per liberarla dal suo peso.
Il sesso in Imamura non ha mai bisogno, per essere nobilitato, di connotazioni melodrammatiche o addirittura decadenti (leggi Nagisa Oshima). E' anch'esso di per sé fonte di vita e di gioia, di comunicazione. Spesso è extra-matrimoniale (come in questo caso), ma spesso coincide con l'amore, è amore fisico, perché - d'altra parte - solo il corpo può manifestare l'amore. Lo ripete spesso il personaggio di Taro (Kazuo Kitamura), chiamato non a caso "il filosofo": "Il vero dramma nella vita è quando non ti si rizza più". Affermazione che, in questo contesto, non ha nulla di vanziniano.
Imamura è - culturalmente parlando - un eretico. E' emotivo, sensuale, sboccato, ha sempre narrato storie di proletari e prostitute, con la macchina da presa che si muove in piccoli paesi, tra case e baracche in rovina, per raccontare la grande vitalità degli shomin, la gente comune che li abita. La donna, in particolare, pur partendo da situazioni degradanti o meschine, ne esce sempre (o quasi) vincitrice e appagata. Come Saeko che, per questo suo dono/maledizione, diviene un curioso oggetto sessuale per gli uomini del villaggio, una specie di mostro che attrae e allo stesso tempo fa repulsione, attorno alla quale si costruiscono strane leggende (avrebbe prosciugato il suo precedente uomo, pescatore anche lui, fino ad ucciderlo), ma che nonostante questo vive con dignità e allegria, rivitalizzando colui che l'ama.
Un messaggio semplice eppure profondo, un'energia enorme e sorniona, da parte di questo vecchio regista che in qualche modo richiama - differenziandosene - la creativa, serena vecchiaia del Kurosawa di Sogni e Rapsodia in agosto.
Voto
8