Presentazione La gatta di pezza, regia di Franco Scaldati, 2008
Recensione La gatta di pezza, regia di Franco Scaldati, 2008
La salvezza arriva dagli inerti, dai derelitti, dai diseredati,
dagli sfortunati. Sembra un mantra quest’ultimo testo di Franco Scaldati
(sempre più somigliante all’ultimo Saddam) dove è proprio l’unico oggetto
inanimato, “La gatta di pezza”, a diventare scudo e corazza della demente che
ne porta le spoglie, appunto il giocattolo di cencio con la testa floscia e le
gambe accartocciate inadatte all’azione ma solo alla meditazione ed alla
riflessione, che risolve nell’ultimo guizzo le sorti poetiche del microcosmo
(ma potrebbe essere ampliato a dismisura) del basso di questo profondo Sud. E
non c’è tempo, neanche quello che sembra, sembra soltanto, scorrere in un
inutile rincorrersi di letti-isole, prestazioni sessuali, comunque irrisolte in
una lotta verbale d’accanimento sessista e nulla più. Prostitute, amanti,
omosessuali, (sono tutti gatte di pezza e “dormono sulla collina”) fermi nelle
loro cucce, rintanati spiegazzati tra lenzuola lerce di vergogna, in posizione
fetale, sembrano accettare lo stillicidio del supplizio quotidiano, le ferite alle
quali sono abituati, ed alle quali non vogliono rinunciare. La ragazza
incompiuta come parafulmine accoglie le istanze d’affetto di ognuno dei
componenti del nucleo familiare e quasi li confessa con il proprio silenzio, li
osserva guardando nel vuoto, benedicendoli con la bava alla bocca. E’ una santa
che ha tentato di applicare il dolore alla propria pelle togliendolo agli altri
ma che non è riuscita nell’esorcismo. Incarna la grazia, il sogno, il miracolo,
l’unica luce, seppur fioca, di quella vita bassa. E con i piedi nel catino pare
una matrona greca, senza braccia, o ancora la Venere
del Botticelli, bella, e lontana. Ma il leone- padre padrone, l’Ulisse-
Scaldati che trascina i piedi e tossisce bestemmie, è un Geppetto
etilico che uccide a poco a poco le sue “creature”, attirandosi le ire degli
Dei che lo puniscono liberando il ceppo familiare ma riducendolo anche ad un
ammasso di rami secchi senza più il tronco, il bastone da soma, il fallo
minaccioso (ma sembra impotente) lasciando il muggire nell’arena felice e
festoso e festante ma per quel breve lasso che riconduce ad una pena più alta,
ad uno scollegarsi privo di quell’amalgama, anche basata su una violenza
ancestrale e primordiale di clava e bisogni primitivi da soddisfare, che, in
alcun modo, la poesia della pezza dell’animale, comunque già morto o morente
tra le braccia di una demente, non può certo risollevare ne farne le veci. Ed
allora la liberazione, con il cadavere del dittatore ancora fumante a terra
come statua decapitata, come corpo appeso, diventa ancora cappio più stretto ed
il buio avvolge, tra corpi morti e corpi di morti che camminano, come spettri
incontro al tunnel. Perché dal tunnel non se ne esce.
Voto
7