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  26/04/2024 - 13:28

 

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Franco Scaldati
recensione della Gatta di pezza
La salvezza arriva dagli inerti, dai derelitti, dai diseredati. In scena al fianco dello stesso autore, gli attori Egle Mazzamuto, Serena Barone, Virginia Alba, Fabio Palma, Dario Enea, Massimiliano Carollo, Salvatore Pizzillo, Domenico Di Stefano e Rosario Sammarco
Prima nazionale 11 e 12 gennaio 2008 al Teatro Studio di Scandicci

 




                     di Tommaso Chimenti


Presentazione La gatta di pezza, regia di Franco Scaldati, 2008
Recensione La gatta di pezza, regia di Franco Scaldati, 2008


La salvezza arriva dagli inerti, dai derelitti, dai diseredati, dagli sfortunati. Sembra un mantra quest’ultimo testo di Franco Scaldati (sempre più somigliante all’ultimo Saddam) dove è proprio l’unico oggetto inanimato, “La gatta di pezza”, a diventare scudo e corazza della demente che ne porta le spoglie, appunto il giocattolo di cencio con la testa floscia e le gambe accartocciate inadatte all’azione ma solo alla meditazione ed alla riflessione, che risolve nell’ultimo guizzo le sorti poetiche del microcosmo (ma potrebbe essere ampliato a dismisura) del basso di questo profondo Sud. E non c’è tempo, neanche quello che sembra, sembra soltanto, scorrere in un inutile rincorrersi di letti-isole, prestazioni sessuali, comunque irrisolte in una lotta verbale d’accanimento sessista e nulla più. Prostitute, amanti, omosessuali, (sono tutti gatte di pezza e “dormono sulla collina”) fermi nelle loro cucce, rintanati spiegazzati tra lenzuola lerce di vergogna, in posizione fetale, sembrano accettare lo stillicidio del supplizio quotidiano, le ferite alle quali sono abituati, ed alle quali non vogliono rinunciare. La ragazza incompiuta come parafulmine accoglie le istanze d’affetto di ognuno dei componenti del nucleo familiare e quasi li confessa con il proprio silenzio, li osserva guardando nel vuoto, benedicendoli con la bava alla bocca. E’ una santa che ha tentato di applicare il dolore alla propria pelle togliendolo agli altri ma che non è riuscita nell’esorcismo. Incarna la grazia, il sogno, il miracolo, l’unica luce, seppur fioca, di quella vita bassa. E con i piedi nel catino pare una matrona greca, senza braccia, o ancora la Venere del Botticelli, bella, e lontana. Ma il leone- padre padrone, l’Ulisse- Scaldati che trascina i piedi e tossisce bestemmie, è un Geppetto etilico che uccide a poco a poco le sue “creature”, attirandosi le ire degli Dei che lo puniscono liberando il ceppo familiare ma riducendolo anche ad un ammasso di rami secchi senza più il tronco, il bastone da soma, il fallo minaccioso (ma sembra impotente) lasciando il muggire nell’arena felice e festoso e festante ma per quel breve lasso che riconduce ad una pena più alta, ad uno scollegarsi privo di quell’amalgama, anche basata su una violenza ancestrale e primordiale di clava e bisogni primitivi da soddisfare, che, in alcun modo, la poesia della pezza dell’animale, comunque già morto o morente tra le braccia di una demente, non può certo risollevare ne farne le veci. Ed allora la liberazione, con il cadavere del dittatore ancora fumante a terra come statua decapitata, come corpo appeso, diventa ancora cappio più stretto ed il buio avvolge, tra corpi morti e corpi di morti che camminano, come spettri incontro al tunnel. Perché dal tunnel non se ne esce.

Voto 7 

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