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Mi chiamano Garrincha
Regia di Lorenzo Bassotto e Fabio Mangolini
La voce di Bruno Pizzul per uno spaccato di calcio - teatro
Al Teatro Cantiere Florida di Firenze - 17 febbraio 2005.

 




                     di Tommaso Chimenti


Garrincha era un soffio di vento, era la poesia al potere, era la magia che faceva si che un handicappato, un disgraziato, un derelitto della società, uno storpio, uno destinato ai bassifondi ed al massimo a chiedere l’elemosina, un analfabeta per giunta, con un dribbling, con uno scatto, un assist, un passaggio filtrante, un goal accarezzando la palla e dandole del tu, facesse esplodere la voglia di riscatto, la gioia incontenibile, la rabbia di tutti gli emarginati della terra.
Proprio nella stessa serata in cui Alessandro Benvenuti portava in scena il suo “Atletico Ghiacciaia” a Scandicci, dopo poche settimane da “Fuorigioco di rientro” dell’ex calciatore professionista Andrea Mitri alla Limonaia, ma soprattutto sul filone di quello che è stato da tutti riconosciuto come il vero boom e successo della scorsa stagione, “Italia Brasile 3 a 2” del nuovo fenomeno giovanile Davide Enia, un altro testo sul calcio, un altro mix tra teatro e pallone.
Lorenzo Bassotto è impeccabile nel ruolo monologante del magazziniere che in comune con Garrincha ha soltanto una gamba più corta di sette centimetri ed il soprannome, mentre figura alquanto misteriosa rimane la ballerina, il ricordo, il sogno, Jana Karsaiova, che danza attorno a lui, non aggiungendo niente alla scena.
Inutili anche le innumerevoli valigie sparse sul palco.
“Mi chiamano Garrincha”, liberamente tratto “Lettera a mio figlio sul calcio” del giornalista sportivo Darwin Pastorin, è una ventata leggiadra di musica e parole, di ricordi, di nostalgie, proprio nel giorno in cui scompare Omar Sivori, una boccata di gioia dove il pallone era la vera droga e la parola doping non esisteva neanche sul vocabolario, dove c’erano ancora le bandiere e non esistevano gli sponsor, dove c’erano gli uomini e non le macchiette.
Dal ’50, anno in cui il Brasile perde in casa la finale del Campionato del Mondo con l’Uruguay in un Maracanà triste e piangente, passando per il ’58 ed il ’62 anni di trionfo nei Mondiali per l’”Uccellino” Garrincha, il piccolo, nero, brutto anatroccolo soprannominato con il nome di un volatile dell’Amazzonia, punta di diamante del Botafogo.
“Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori” cantava De Andrè, “se la merda valesse qualcosa i poveri nascerebbero senza buco del culo”, proverbio brasiliano.
Garrincha era l’angelo sporco caduto in mezzo agli dei, era l’urlo di generazioni di morti di fame, di sopraffatti, di perdenti, di sconfitti, di illusi dalla vita.
Dopo il Brasile verde oro, passando per la tragedia di Superga, Edson Arantes di Nascimento detto Pelè, le voci calde e graffiate di Sandro Ciotti ed Ameri, le figurine Panini, l’Inter del Mago Helenio Herrera ed il Milan del Paron Nereo Rocco, “colpite tutto quello che si muove a pelo d’erba, se è il pallone meglio”, e poi il gigante Charles e l’ala destra del Torino anni ’70 Gigi Meroni , capelli lunghi, una gallina a guinzaglio che dipingeva sotto i portici della città all’ombra della Mole, ed ancora Gigi Riva, detto tutto attaccato, simbolo di una regione non sua, “Rombo di Tuono”, e Anastasi che quando segnava faceva gol per tutti gli operai meridionali della Fiat.
Risuona l’urlo “Campioni del Mondo” di Martellini, l’urlo di Tardelli paragonato a quello di Munch, Zico e Maradona, “l’angelo sfrattato dal Paradiso con destinazione l’Inferno”, il gol con “La Mano di Dio”, le isole Falkland, fino a Baggio e Ronaldo.
Perché il calcio, lo sport, è la metafora della vita: c’è un avversario, la preparazione, la lotta, il successo e la sconfitta, la sfortuna e gli Dei, c’è il pubblico che ti acclama e ti fischia, ti giudica e ti fa cadere nel fango, c’è il sudore e la soddisfazione, ma c’è anche la lealtà ed i valori, i principi morali ed il rispetto dell’altro, c’è la vita dentro novanta minuti, un campo verde ed un calcio di rigore mentre in alto brillano le stelle di Scirea e Meroni, bianconero e granata, uniti nella costellazione dei campioni.

Voto 8 

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