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Naomi Klein
No logo
Milano, Baldini & Castoldi, 2001; pp. 454

 




                     di Giovanni Ballerini


La lotta alla globalizzazione inizia dal rifiuto delle griffe, dei loghi con cui le industrie ci convincono a sovrapporre la loro immagine alle nostre? Per la giornalista e scrittrice canadese Naomi Klein è sicuramente così. Lo testimonia il suo ultimo interessantissimo libro "No logo", in cui la Klein analizza il crescente malcontento della gente (soprattutto dei più giovani ) nei confronti dei marchi industriali (e delle relative campagne di marketing). Un libro di settore? Un volume per pubblicitari pentiti? Nemmeno per idea. Se Cd come Clandestino e Proxima estacion: Esperanza di Manu Chao sono un po' l'emblema positivo di musica sostenibile oltre la soglia del 2000, il libro di Naomi Klein riesce a tratteggiare (con una vivace analisi socio-culturale), più di tante colonne di giornale dedicate ai G8 (soprattutto a quello di Genova) o alla presunta filosofia del " popolo di Seattle", il senso dei tempi, le contraddizioni che ci troviamo davanti. Spesso senza nemmeno accorgercene.

Magari qualcuno penserà che i temi trattati in questo libro sono di parte, ma anche chi è allergico alle considerazioni politiche, non può fare finta di niente. Non si può ignorare un progetto che sta sviluppandosi alle nostre spalle: meglio voltarsi e fare mente locale. In effetti, il merito di questo saggio che il New York Times ha definito "la bibbia dell'antiglobalizzazione" (pubblicato in Italia da Baldini e Castoldi) è proprio la sua capacità di scuoterci dal torpore, di aprirci gli occhi di colpo verso una serie di verità che molti iniziavano a intuire. Naomi Klein, con un coinvolgente piglio giornalistico, evidenzia infatti nel suo libro lo sforzo compiuto dalle grandi aziende, soprattutto dalle multinazionali, per rendere omogenee le nostre comunità e monopolizzare il linguaggio, il gusto comune. Ovviamente " No logo" racconta (tratteggiandone le prospettive economiche) anche la ribellione contro il questo mondo di etichette, sottolineando anche la forte ondata di resistenza, testimoniata dalle azioni di guerriglia dei più giovani antagonisti, dai sabotatori di cartelloni pubblicitari agli hacker, dai sostenitori di uno sviluppo sostenibile alle campagne anti-industriali.

Anche se infatti molti considerano il cosiddetto popolo di Seattle uno dei movimenti più eterogenei che la storia delle contestazioni ricordi, una cosa è chiara: il disagio verso il gioco delle grandi corporation non è solo un sentimento condiviso da contestatori in erba. E soprattutto, se c'è davvero qualcosa di globale è la crescente avversione verso una globalizzazione troppo generalizzata. Che sta diventando sempre più opprimente. Difficile non provare una rabbia intelligente, una ribellione creativa, cosciente verso questo fenomeno che rischia di spersonalizzare qualsiasi cosa facciamo. Francamente non siamo invece del tutto d'accordo con la Klein sul fatto che la new economy sia diventata il veicolo principale di questo coercizione globalizzante, anche se, a dire il vero, bisogna ammettere che la maggior parte di imprenditori (e pseudo crestivi) che si sono gettati su Internet alla scoperta dell'Eldorado del terzo millennio di "new" hanno davvero poco. Lo stesso dicasi degli addetti al marketing (net o old economy fa poca differenza) e soprattutto di tanti pubblicitari, a cui fa comodo speculare sui luoghi comuni invece di sperimentare e proporre una comunicazione, se non colta, almeno intelligente, innovativa, insomma condivisibile.

" No Logo" in definitiva, più di una protesta, rappresenta una fotografia (ai raggi x per coinvolgere anche i più distratti ) delle strategie (ma anche della vita reale) della società dei nostri giorni. Non c'è che da prenderne atto. E fare in modo di invertire la tendenza. Ognuno deve fare la sua parte. Nessuno escluso. Con serietà e tanta, tantissima, creatività. Alla base di tutto c'è l'allargamento della consapevolezza.

Naomi Klein, No logo, Milano, Baldini & Castoldi, 2001; pp. 454

Voto 9 

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