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Alessandro Damiani
Ed ebbero la luna
Scritto nel 1979 e uscito una prima volta nel 1987
Il romanzo-saggio viene ripubblicato della casa giornalistico-editoriale EDIT di Fiume all'interno di Altre lettere italiane, una collana dedicata agli autori della Comunità Nazionale Italiana di Croazia e Slovenia

 




                     di Nelida Milani


Il romanzo di Alessandro Damiani “Ed ebbero la luna”, scritto nel 1979 e uscito una prima volta nel 1987, possiede la quali­tà che meglio conviene al nostro tempo, quella della responsabilità. È un'opera nella quale riconosciamo tanta parte del nostro destino e della nostra parabola. Con un'immaginazione lussureggiante ma che osa dichiararsi solo sotto cauzione del reale, l’autore traccia l’itinerario spaziale, temporale e spirituale (memoriale) di pochi personaggi. In una composizione essenzialmente metaforica. Il racconto, infatti, è semplicemente una materia corrente che incastona la preziosa sostanza metaforica, è una forma, la cui costrizione in sei sezioni compenetrate l'una nell'altra permette dì estrarre i termini della metafora dalla loro virtualità costitutiva. Le stessa duplicità di romanzo-saggio e storia è feconda. Come romanzo, l’opera solidifica il tempo, impedisce alla percezione storica di disperdersi: viene in evidenza tutto un ordine di connessioni, che non è altro se non la tensione di una storia fatta dagli uomini. Come Storia, esorcizza di colpo lo spettro della spiegazione psicologica e fa assurgere i personaggi a dignità di simboli. Roberto, il personaggio da cui l'autore prende le mosse nel microcosmo di un'Italia che è quella che è nella seconda metà degli anni Settanta, cioè un'antologia senza lacune:  disillusioni, libertà introvabile, isolamento politico nel disaccordo di ciascuno da tutti, mancanza di progettualità, caduta delle speranze, tempo che vale soltanto perché passa, politica vista come nausee o come violenza — riassume in sé tutti i nodi e tutti i germi distruttori che operano nella società. Attirato dai Dannati dell’utopia, Roberto è sul punto di optare per lo slancio barricadiero ed entrare nella clandestinità…

In stato di complicità col nostro mondo, coestensiva alla problematica del nostro tempo, l'opera, da cui trapela la tensione di un autentico travaglio speculativo, comincia ora a muoversi nelle strutture dell’immaginario per far narrare ai protagonisti la storia di ciò che, in fin dei conti, potrebbe succedere… Un pizzico di fantasociologia aiutando e lo scrittore gioca sul fattore tempo a proprio piacere e dilata  il microcosmo italiano ad immensi spazi geografici: un lungo “bagno asiatico”, descritto in “Odissea”, in cui si coglie con uno sguardo-mosaico tutto il tremore di lontane terre, l'unicum di lontane percezioni fatte presenti e in cui l’autore riesce a sublimare e configurare antinomie sconcertanti come la vita stessa, nel superiore e tuttavia fraterno e quasi orientale sorriso di una regione che inventa.

L’incontro etnografico fa capire a Roberto in ultima istanza quanto in lui sia efficace l’umanesimo tradizionale, chiuso in quel corso storico che reclama le sue origini dell’antichità greco-latina e che attraverso la civiltà cristiana giunge al mondo moderno e contemporaneo.

Non si tratta di rapporto aristocratico tra “selvaggio” e “uomo civile”. “Le civiltà sono semplicemente diverse”. Il “selvaggio” è impartecipe di quel corso, o è rimasto al margine di esso o ad esso ha reagito con riplasmazioni delle proprie tradizioni o è caduto in uno stato di smarrimento e vacuità (l’episodio degli emarginati vietnamiti sulla barca alla deriva). Anche se riesce a creare un comportamento abbastanza soddisfacente facendo quello che i “protettori” chiamano un grande progresso verso la civilizzazione, Roberto non può trovare una risposta in quella comunità primitiva. La risposta è altrove, nella sua civiltà, per la quale non esiste un “di fuori”, ma nella quale l’uomo si definisce in rapporto con gli altri.

Roberto prolungherà la sua catarsi nel Mondo del vecchio: un'oasi bucolica che sul filo delle stagioni assume gli aspetti cangianti del paesaggio istriano. Il Vecchio vi era giunto dopo essersi lasciato alle spalle «la morta babele». Il suo vagare per paesaggi desolati s'era arrestato alla casa ospitale della semplice e generosa Marisa. Il nuovo Adamo e la nuova Eva avevano organizzato a poco a poco la loro vita sullo sfondo di una natura immutabile nel suo rigenerarsi, impassibile nella sua perenne metamorfosi, segno di pace e di riconciliazione tra l'uomo e l'universo. Le pagine che seguono la scomparsa improvvisa della donna mostrano nel Vecchio il sentimento doloroso dell'esistere e la sua capacità di placarlo con l'accettazione serena delle leggi del tempo e della natura. Respingerà il ricongiungimento coi fantasmi del passato (nella casa degli avi) e l'assillo della morte e l'idea del suicidio e vincerà in lui il desiderio della presenza dell'uomo, «promotrice di civiltà ovunque si stanziasse col suo bagaglio di grandezza e di miserie».

Per bocca del Vecchio sapremo cos'era successo in Europa durante l'«assenza» di Roberto. A salvare gli uomini sull'orlo dell'immane catastrofe preparata da un'economia da pre-collasso, dalla crisi energetica, dalle storture ideologiche, dall'impossibile disarmo, dall'esplosione demografica, era intervenuta la «voce» … in attesa di una nuova crescita culturale e civile. Ne seguì «la goduria di raccolti non seminati». Non volevano gli uomini la luna? E l'ebbero su un piatto d'argento dal «dispensatore di doni».

Ma a questo punto l'autore introduce il tema del vaso di Pandora che, aperto, per l'imprudente curiosità degli uomini, spande tutti i mali sulla terra. Cosicché il mondo che aveva già in precedenza troppe rotelle fuori posto, perde il senso comune. La verità, esibita meccanicamente dall'aggeggio-scovamagagne che può fotografare il passato, polverizza le basi della civiltà umana, sbriciola miti, tradizioni, ideologie, istituzioni, rendendo gli uomini «casuali e ingiustificati». Credenze, morali, filosofie, metafisiche, che rappresentavano la conquista dura e paziente dei migliori spiriti di tutti i secoli, vengono annientati a spron battuto dall'infernale macchinetta. Lo sfacelo fu completo. Il male era fatto: a stroncar gli uomini non era stata la difficoltà di attuare i loro sogni, ma la scoperta di averli raggiunti. L'aver raggiunto la meta, l'aver ottenuto la luna, l'aver svelato la metafora… Ma il peggio doveva ancora venire, perché «l’intruso aveva commesso l'errore di essere stato eurocentrico»... Migrazioni da un miliardo di sottoalimentati si riversano sul vecchio continente: una materia dantesca e biblica e un'aura wagneriana scorrono davanti agli occhi. Una fiumana di uomini di tutte le razze percorrono le strade d'Europa mescolandosi, uccidendosi, soffrendo in un esodo e in un conflitto d'umanità che riproduce accenti di desolate profezie apocalittiche. La situazione drammatica, la situazione storica, concepite come situazioni estreme, raggiungono qui la propria ontologia. L'apocalisse è un modo di raccogliere l'infelicità umana, di assumerla, di giustificarla sotto forma di necessità, di saggezza, di purificazione. Il colpo di grazia arrivò con lo scarto termico estivo. Con la rapidità di una trama cinematografica proruppe il flagello dei secoli più bui: la peste. L'Europa finì per accasciarsi in preda all'immondo morbo camusiano, simbolo della deflagrazione finale dell'irrazionale.

La peste sparirà quando si apriranno le cateratte del cielo e la tenaglia del caldo sarà spezzata. «Ora spettava ai grandi rivolgimenti della natura e della specie promuovere nella sagace lentezza del tempo un nuovo ciclo»… E Roberto lascerà il vecchio al suo destino. Ha superato l'impasse.

Ed è il punto di arrivo dell'autobiografia ideologica dell'autore, questo trattare i massimi problemi del nostro tempo non vergognandosi di non avere facili soluzioni da vendere. Tanto più che la sua morale non ha nulla di catechistico e il libro si chiude, dopo una lunga interrogazione al mondo e ai personaggi attraverso un racconto di apparenza assertiva, lasciando il compito al lettore di trovare da sé, come Roberto, la soluzione dei problemi posti, perché l'opera letteraria non è mai risposta al mistero del mondo.

A differenza di molti autori che amministrano con parsimonia le loro trovate sterili in un raccontarsi allo specchio, Damiani butta in ogni suo lavoro decine e decine di idee-chiave ognuna delle quali, da sola, basterebbe a reggere il peso di un intero romanzo. Da cui si può facilmente indovinare il rischio di decifrare un'opera letteraria con un simile carico di idee, con una tale tensione spirituale. Percorrere quest'esperienza problematica del romanzo nei suoi diversi livelli e nella ricchezza dei temi, esigerebbe una strenua applicazione, quasi uno stoicismo specialistico. Io mi son limitata a suscitare, spero, l'interesse del lettore senza volerlo privare del piacere di scoprire da solo il maestoso orbitare dell'intreccio, la sensibilità a tematiche vaste e profonde, la bellezza del paesaggio (istriano), i dialoghi pacati e solenni, la pagina pregnante, condensata in massime, dalla quale fa ogni tanto capolino il sottile humour e l'ironia superiore dell'autore.

Voto 8 

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