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  01/05/2025 - 04:22

 

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Scanner - cinema
 


12 anni schiavo
Regia di Steve McQueen
Cast: Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Paul Giamatti
USA 2013. Durata 134 min

 




                     di Matteo Merli


Si chiama come il mitico attore e pilota automobilistico statunitense, ma questo  Steve McQueen, che è nato a Londra nel 1969, è il primo regista di colore a vincere L’Oscar (nel 2014 si è aggiudicato la statuetta di miglior film, con Lupita Nyong'o quella di miglior attrice non protagonista e quella per la miglior sceneggiatura non originale). 12 anni schiavo parla dell’abominio della schiavitù a partire dal rapimento e vendita, dal suo essere braccia e mani che devono solo agire come forza lavoro, nella sua forma di controllo e imprigionamento che spersonalizza l’individuo e lo rende inerme e assoggettato al suo padrone.
La storia vera di Solomon Northup, che nel 1841, nonostante fosse un uomo libero, venne rapito e portato in una piantagione di cotone in Louisiana come schiavo, per rimanerci fino al 1853. Tutta colpa delle diverse leggi che regnavano negli Stati americani, per cui a Washington (dove avvenne il rapimento) la schiavitù era legale, a differenza di quello che succedeva a New York, città in cui viveva normalmente Northrup. Responsabili dei dodici anni di schiavitù dell’uomo furono due bianchi, che con l’inganno lo portarono nella capitale americana e poi lo privarono dei documenti che provavano il suo status di uomo libero. olomon vede e scopre con i suoi occhi l’orrore di barbarie inaudite che offendo il corpo, suo e dei suoi compagni, dove l’imprigionamento e le rigidità di un codice violento non da spazio a speranze e scappatoie morali: unica regola vivere e pensare di farcela con il proprio corpo. Dopo i corpi ribelli di Hunger e il fisico tormentato e contorto di Shame, McQueen continua la sua ricerca inerente al contesto di corpo come soggetto espressivo e narrativo, ma qui il suo sguardo inceppa nel raccontare le radice storico di un evento razziale che purtroppo allinea la sua storia a una retorica di fondo facilmente assimilabile visivamente, e non esercita orrore o stupore sconcertanti, ma ci rassicura che tutto ciò e passato e non accadrà più. McQueen fallisce nell’aspetto rappresentativo di un mondo che si fa più scenico che contenutista, rappresentativo di interpretazioni buone e dove il salvatore c’è per il nostro eroe, che deve dimorare altrove e farci riflettere sulle sue esperienze come una lezione didattica e propedeutica al dibattito. Già Shame aveva mostrato le corde di un cinema falsamente amorale, ma anzi conservatore nella sua forma e in questa produzione americana, mostra tutti i difetti di una pellicola già montata per accedere alla vittoria di una statuetta nel suo regolare racconto classico senza sussulti.

Voto 5 

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