Ormai sono le otto, l'atmosfera è elettrica, l'evento sta per compiersi: perché questa è l'entrata degli artisti del teatro Ariston di Sanremo, e di qui dovranno passare tra poco i Ragazzi Italiani per la loro prima apparizione al Festival nazionale. Ore otto e trenta, ci siamo: due taxi arrivano, accostano, si fermano. Qualcuno intravede fra i passeggeri del primo taxi un giubbotto di pelle, una chioma fluente: devono essere loro. Le macchine fotografiche si alzano, qualcuno comincia già a scattare foto al taxi benedetto, le mani si protendono, si levano le prime grida.... ma tutto d'improvviso si blocca con gran delusione quando la portiera finalmente si apre. Perché a scenderne, con tanto di giubbotto di pelle e chioma fluente, non è uno dei Ragazzi Italiani: più miseramente, scendo io. Mostro il pass alle guardie, e faccio la mia dignitosa entrata, nonostante i mugugni insoddisfatti delle fans, nelle viscere del teatro più televisivo d'Italia.
Scene come queste sono state piuttosto frequenti nella nostra settimana a Sanremo. Come
Jubilee Shouters, coro di jazz e gospel, ovviamente non ci conosceva nessuno: come coro accompagnatore degli O.R.O., ex nuove proposte 1996 e ormai fra i "big" della canzone, ogni tanto qualche telecamera ci riprendeva; il più delle volte per merito degli stessi O.R.O. che cercavano di farci pubblicità e di coinvolgerci per quanto possibile nei loro salti da un'intervista all'altra. Quando accadeva per la strada la gente si fermava: se c'è la tv, vuol dire che sono cantanti, e magari ci scappava anche che ci chiedessero qualche autografo
Ma a parte gags di questo tenore, tutta l'esperienza sanremese è stata estremamente allegra. Una volta giunti in teatro, ci sistemavamo nella green room. La maggior parte degli artisti giovani stazionava sempre lì, insieme ai vari musicisti "aggiunti" (ci spellammo le mani dagli applausi quando fece il suo primo ingresso Toots Thielemans ), a qualche discografico, e ai sosia di Piero Chiambretti: e la prima sorpresa, per quanto mi riguarda, fu che l'atmosfera era relativamente rilassata. Mi aspettavo molto peggio, a giudicare dall'aria di competizione e sospetto reciproco che si respira a volte nei vari Rock Contest o Emergenza Rock: e invece, soprattutto fra i giovani, c'era un modo piuttosto schietto di incoraggiarsi e di applaudirsi quando qualcuno faceva una bella "uscita" sul palco grande.
Ciò che non mi ha sorpreso affatto è stata la potenza, l'impatto delle telecamere. Fa poca notizia parlarne, in fondo e un po' banale; ma quei grossi mostri neri che ci attendevano là "fuori", sul palco grande, assorbivano tutta la nostra attenzione e quella dell'intero universo Sanremo. Tutto ciò che contava era quello che il mostro vedeva, bisognava sempre sapere dov'era la telecamera, sapere se era accesa (si vede da una serie di luci rosse che brillano sulla parte anteriore per avvertire il malcapitato di fronte che non può permettersi mosse false), essere consapevoli di raggio e dimensione dell'inquadratura. L'Ariston va immaginato come un luogo di caos, di brulicante attività, con un quadratino di apparente ordine al centro, un quadratino che si sposta come una macchia d'olio sul mare portando con sé calma piatta: l'inquadratura tv. Ricordo anche che sono state le telecamere, quelle a spalla, a spezzare l'incantesimo dell'atmosfera tesa, ma in fondo allegra, della green room. Quando eravamo tutti giù ad attendere il verdetto finale, erano appoggiate per terra con aria indifferente, un po' a caso, o forse, ragionandoci a posteriori, vicino a quanti più vincitori in pectore possibile; e la sentenza l'abbiamo appresa da loro, perché a un certo punto si è sentito un levarsi di grida, i cameramen delle diverse reti hanno impugnato le armi e si sono messi a spingersi a vicenda per fare ressa attorno ai primi classificati. Non abbiamo fatto in tempo neanche a toglierci di mezzo, le telecamere spingevano via anche noi, tornati nel volgere di un attimo ad essere folla, inutile ostacolo fra l'obiettivo e la star; e così non ci sono state telecamere a filmare la nostra partenza, né ad attenderci al nostro ritorno notturno a Firenze. La nostra vanità, coccolata e stimolata in tutta una settimana, ne è rimasta ferita: chi più, chi meno, ci abbiamo messo un po' a riprenderci.
E quelli più impressionabili fra noi, io in prima linea, quando ci incontriamo ci lanciamo sguardi d'intesa, sorrisi complici; in fondo questa esperienza, quella del ritorno a casa, dico, non ci ha cambiato più di tanto. Sappiamo bene che è solo una parentesi: dovranno per forza tornare presto truccatrici e parrucchieri, torneranno gli autografi, e torneremo al posto che ci spetta, davanti alla luce rossa dell' "on the air". E' solo questione di tempo.
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