Tommaso Chimenti di www.scanner.it, ha
intervistato per OctoberTest Jan
Lauwers.
Ha gli occhi di ghiaccio, stretti, tagliati e blu come l’istmo tra Venezia e Murano; i
capelli sale e pepe con tanto di ciuffo; l’aria da cow boy duro ma leale,
deciso ma onesto. Per l’intervista preferisce uscire dal teatro:
«Con uno spritz davanti si parla meglio» dice sornione. Ha ragione anche stavolta.
Che idea si
è fatto del laboratorio?
Ho incontrato tante persone, è stato un momento speciale sia per me che
per loro. Dovevo, dovevamo lavorare sull’idea e
sul concetto di “peccato”, ma alla fine non ho fatto attenzione al
tema. Gli allievi mi hanno portato delle indicazioni ed
abbiamo lavorato sulla loro energia: abbiamo lavorato duramente per
canalizzarla.
In che modo ha lavorato?
Avevo davanti diciotto persone e ho cercato di dare importanza, ascolto ed
attenzione a tutti, ad ognuno di loro, anche se era difficile e anche se
sicuramente non ci sono riuscito. Ma ho sentito una
grande partecipazione, un buon feeling con tutti loro.
Che risposte dunque ha trovato nel workshop?
Nessuna risposta, solo altre domande. Se avessi trovato delle risposte
ci sarebbe stato qualcosa di sbagliato, qualcosa che non andava.
Nei suoi spettacoli, ed anche in questa settimana veneziana al Piccolo Arsenale, in
scena ci sono dei microfoni: che significato dà all’oggetto che
amplifica la voce?
Uso il
microfono quando è necessario: per me non è importante in
assoluto. Serve solamente per fare arrivare la voce più lontano:
è funzionale, non ha altri significati se non aumentare il suono delle
corde vocali, non ha alcuna valenza estetica o fallica.
Negli anni
Ottanta, quando abbiamo iniziato ad usare il microfono
eravamo praticamente i soli a farlo: il microfono in scena era fondamentale, ma
ora, per me, rappresenta quasi il passato. Oggi non è più una
scelta artistica: se lo uso è perché
c’è musica, o per cantare, come avviene in Isabella’s
Room. Insomma, è un problema di acustica. Tutto qui. Per me everything is possible:
quindi posso utilizzarlo oppure no, ma non è un simbolo di
qualcos’altro.
Lei passa
agilmente dal video alla video art, dalla musica al
cinema, dal teatro alle arti visive. Qual è il media che sente
più suo?
Scelgo per
necessità. Scelgo di volta in volta il mezzo più opportuno. Ho
scritto un libro (che era in questi giorni sul tavolo di regia in teatro, Restlessness, cioè “irriposabilità”,
ndr) che è una raccolta di mie opere visive. Il mio sogno sarebbe
soltanto quello di disegnare, avere davanti semplicemente un foglio e una
matita. Ma non ho riposo, mai. Adesso sto lavorando a
questo workshop, sto preparando una sceneggiatura, sto
facendo la regia di un nuovo spettacolo, sto scrivendo un libro. Nel mio
studio-atelier di cinquanta metri quadri ho un computer, dipinti e sculture da
finire, una chitarra e continuo a muovermi dall’uno all’altro.
Addirittura all’inizio il teatro non mi piaceva neanche più di
tanto, adesso, dopo 25 anni, penso invece che sia il
mezzo più importante per fare politica.
Già,
perché il teatro deve essere necessario, politico e non terapeutico…
Il sistema
visivo è stato comprato dal capitalismo, il mercato vende e compra arte.
L’unico mezzo per scappare dalla vendita dell’oggetto è il
teatro capace di creare spazi mentali che non si possono comprare. Il mercato
può distruggere le strutture-teatro ma non il Teatro, lo spirito del
Teatro. Il teatro è immateriale, non puoi
venderlo o comprarlo. L’avere pochi soldi a disposizione è il limite ma, paradossalmente, anche la ricchezza
del teatro. Guardiamo a quanto accade in Europa: ovunque notiamo Dipartimenti
cultura molto deboli, poveri. C’è una politica ben precisa che
vuole togliere la cultura al popolo, renderlo ignorante, e questo è estremamente pericoloso. Accade ovunque, in Belgio come in
Olanda, dove hanno definito il teatro come una “lobby di sinistra”;
in Francia o in Italia. In Europa al governo ci sono persone pericolose,
Sarkozy e Berlusconi su tutti, che vogliono distruggere il teatro, ma non
possono domarlo. E questo fa sì che il teatro sia ancora più
A
vent’anni Lauwers lavorava per alcune associazioni non governative, era attivamente
impegnato in politica …
Ho un passato
di militante. Ma ho scoperto ben presto che in politica devi sempre scendere a
compromessi, eppure ci sono voluti 2 o 3 anni per
lasciare la politica. Avevo capito di volermi dedicare all’arte, anche
perché non avrei dovuto fare quei compromessi, necessari alla politica.
Ma è una
grossa responsabilità fare politica con il teatro. Negli anni Settanta
(Lauwers ha cinquantatre anni, ndr), ho visto
anche la nascita della RAF in Germania, delle Br o Prima Linea in Italia. Avevo
già l’età per capire, per essere intrigato dalla lotta politica.
In strada, ad ogni angolo, c’erano happening e
performance che ti davano un approccio “politico” alla vita. Oggi
mi stupisco dell’ignoranza delle giovani generazioni. Siamo arrivati a un
punto di non ritorno, molto pericoloso, e dobbiamo confrontarci duramente con
questa situazione, iniziata già all’inizio di questo secolo, con
le grandi crisi economiche. Invece non trovo più passione, forza
politica. Quando vedo i giovani performer di oggi, scopro persone che fanno
l’imitazione delle performance anni Settanta, senza lo stesso background:
si limitano a imitare la forma senza la sostanza. Non sanno quel che
c’è stato, né si interessano a
quello che accade ora. E anche questo è colpa della politica attuale:
è incredibile che la cultura non interessi in Italia, non si capisce il
perché Berlusconi debba trascurare l’enorme patrimonio culturale
di questo paese.
Ma il teatro non sarà mai distrutto. Tornerà. La storia procede per movimenti
circolari. Con questa pessima politica, ora, siamo giù, ma torneremo a
galla. Non sono negativo. Nemmeno ottimista. Berlusconi è uno scherzo:
è cinico definirlo così, perché fa male a tante persone, e
influenza molto le politiche europee – basti pensare al nazionalismo,
all’estrema destra – ma è uno scherzo destinato a passare.
L’identità,
il conflitto sono temi presenti, pressanti, decisivi nelle messe in scena della
Needcompany. È così?
Quando scrivo,
scrivo sulla pelle dei performer che sono con me, e
quella pelle è la pelle del mondo. Senti che stai costruendo qualcosa
con loro, con le loro personalità, con l’intensità che
comunicano, con le loro presenze. Crei conflitti positivi che possono
contrastare i tanti conflitti negativi. Credo, infatti, che il conflitto sia
assolutamente necessario nell’arte. Per fare teatro, per fare arte devi creare conflitto: nella pittura, al cinema,
nella scultura di Paul McCarthy o in un film di Matthew Barney
c’è conflitto. Se non c’è conflitto non
c’è arte: dobbiamo sempre entrare in conflitto con la nostra
moralità, con le nostre abitudini. Farsi domande è
un conflitto positivo, il conflitto negativo è dare soltanto risposte.
Io voglio sfidare le persone positivamente. Berlusconi dà solo risposte,
non pone domande. Pensiamo a questo workshop: le persone coinvolte investono
tanto e io voglio fare lo stesso. Di fronte a venti
persone non puoi perdere tempo, non puoi bluffare.
Allora cerchiamo di creare conflitti, bilanciamenti, possibilità. E di
porre continuamente domande.
Che rapporto
ha, hanno le vostre produzioni, con il pubblico? Lo volete scioccare,
smuovere, coinvolgere, far agire?
Nel mio
percorso ci sono state due fasi. In una prima, era molto presente la quarta
parete, ma ora ho cambiato, cerco altro. Ho aperto il teatro al pubblico, ma in
modo molto semplice: vai in scena e quasi dai la mano agli spettatori. Vediamo
che succede, assieme: in modo gentile si può arrivare alla profondità
dell’individuo, dello spettatore. Sono dunque aperto al pubblico ma non
lo voglio scioccare, non mi interessa. Si tratta,
piuttosto, di entrare in una relazione dialettica con la platea: non si possono
più sconvolgere le persone, non è più tempo per simili
sciocchezze, perché ormai la realtà, il quotidiano è molto
più tragico. La tv è scioccante, ogni giorno. Con il teatro, con
l’arte devi dare ossigeno, fare domande sui grandi temi
dell’umanità. L’arte ed il teatro
sono cose molte serie, servono per andare avanti nella vita. È una
missione da compiere. Un grande artista italiano, Michelangelo Pistoletto ha
detto che l’artista è in cima alla piramide
sociale: più in alto sei più hai libertà ma, al tempo
stesso, responsabilità. Penso abbia ragione. Se vuoi essere libero, devi
assumerti la responsabilità. E questa è la forza politica del
teatro.
Il teatro è una cosa moto seria ma nelle sue piece
c’è anche molta ironia…
Alcuni dicono che non è più tempo per l’humour. Ma
secondo me l’humour è un modo per sopravvivere. Anche gli artisti
più seri, come Duchamp, pensavano che l’humour fosse necessario
per andare avanti. Sono con lui.
Che
cos’è per Lauwers l’immagine?
L’immagine
esiste soltanto nella memoria. Prima guardi un quadro in un museo, quando esci
da quelle stanze ed il dipinto è fuori dalla
tua visione, dalla tua mente, non esiste l’immagine. Ecco, l’arte,
come il teatro, comincia quando esci, quando riesce a provocare una memoria. Se
non provoca memoria, è “intrattenimento”. Le immagini che
restano sono quelle create dall’arte. Ma mi chiedo: pensiamo al nostro
secolo, cosa ci resta in mente? Quali immagini?
L’Orinatoio di Duchamp o Mickey Mouse di Walt Disney? Ecco quel
che mi affascina. Perché non potremmo paragonare
tranquillamente i personaggi della Disney alla Pietà di
Michelangelo o alla Monna Lisa? Forse Topolino è la Monnalisa del nostro tempo…
Ci spieghi meglio la sua “strategia fuori dal centro”, che ha utilizzato anche
in questo laboratorio. Di cosa si tratta?
Se esiste un
centro, il focus dell’azione, lo spettatore segue quello. Io voglio
togliere quel centro, creando diverse fonti di centro.
Voglio rivalutare le “periferie” della scena, trovare nuovi
bilanciamenti. Questo fa si che lo spettatore debba
scegliere il proprio centro, il punto di riferimento. Puoi scegliere
l’attore o il danzatore, quello che parla al microfono o altro che accade
sulla scena. Questo per me è rispettare il pubblico: considerarlo come
individui e non come massa, avere un rapporto più umano. Non di rado le
persone che guardano i nostri spettacoli tornano a vedere lo stesso lavoro
più volte per concentrarsi su altri fuochi scoprendo altre parti che non
hanno potuto cogliere precedentemente. Il pubblico, insomma, deve decidere su cosa concentrarsi: forse
è naif, ma credo che sia bello lasciare al singolo spettatore la
possibilità di scegliere cosa guardare: l’insieme o il
particolare, una sequenza o l’altra. Quando abbiamo iniziato, in
molti si innervosivano, perché non capivano
queste dinamiche: oggi questo linguaggio è molto più acquisito. E
se, dunque, il montaggio finale è nella mente dello spettatore, il
lavoro del regista sta nel trovare il ritmo, la tempistica, l’equilibrio
tra tutti questi centri.
Nelle sue opere si assiste anche ad una demistificazione della
realtà…
È una parola
ambigua, dubbia, doppia. Se distruggi un’illusione
ne crei subito un’altra, tutto è illusione. Si tratta, invece, di
mettere i problemi sul tavolo, non giraci intorno. Essere
concreti, confrontarci con le cose, con la realtà. L’ho
chiesto anche agli allievi del laboratorio: non stare sopra le cose, devi starci dentro.
Voto
8