Nero. Buio. Non si riescono nemmeno a prendere gli appunti
di viaggio. Le scritte storte, le dita blu di bic
senza sosta. C’è un ché di inquietante nel non vedere dove si mettono i piedi,
i puntini. Anche le sottolineature sembrano cancellature. Ed in questo
lapsus-cortocircuito sta la forza della sottrazione della luce. Una sorta di
richiesta d’aiuto. La soluzione: ne possiamo fare a meno. Un non riuscire a
vedere lo spiraglio, la fine del tunnel, la mancanza di punti di riferimenti,
agganci ed appigli ai quali aggrapparsi in caso di caduta. E come si sa, quello
non è il principale problema, ma l’atterraggio. Si cammina a tentoni, non si
trova il bandolo della matassa. L’ago nel pagliaio o la pagliuzza a forma di
trave nell’occhio guercio. E qui, proprio nell’oscurità, al festival B Motion di
Bassano, è stato chiaro, palese, lampante, lapalissiano. Tenebre,
che ci vuole la torcia, nebbia che servirebbe un machete per tagliarla a fette,
nebulosa da credere di essere in una pellicola di fantascienza. E se sono
proprio i giovani gruppi che sentono, che vedono così la realtà c’è di che
preoccuparsi. Cosa c’è intorno al buco, se si sono mangiati la ciambella? La
melma pece si allarga, ci mangia, ci fagocita, non siamo più niente, non
sentiamo più il nostro corpo, che ha perso la sua vitalità ed importanza, la
sua funzione. Siamo rimasti cuori che battono, ma lontano, di nascosto, piano,
quasi per non farsi scoprire, carbonari, attutiamo i rumori come a dire, ci
siamo, ma non ci siamo. Buio ma anche assenza di parole, come se quelle dette
fossero già troppe e non avessero dipanato i punti interrogativi. Le uniche
udite provengono da altoparlanti, da microfoni, sillabe incatenate
precedentemente registrate. Niente di spontaneo, vero, vivo. Come se
arrivassero da un altro pianeta, da un altro buco nero, da un’altra dimensione
a spiegarci l’oggi incomprensibile. Come se non ci fosse più niente di
comunicabile, di estendibile al di là dei propri confini spazio-temporali. Ed
il buio accomuna come fondale nel quale barcamenarsi indistintamente le
creazioni del B Motion Teatro bassanese. Dai Trickster
che ci portano attraverso la via crucis delle stanzette nel loro “H.G.”, acronimo che identifica i piccoli assassini,
dolci e ribelli Hansel e Gretel. Cuffia e pila in dotazione come
pionieri-minatori verso un nuovo mondo che non sta più fuori di noi, ma dentro
di noi. Il fuoco sotto la cenere. Una serie di passaggi e pertugi seguendo le
informazioni, per la verità troppo didascaliche e che lasciano troppo poco
spazio all’individualità, che arrivano in audio. Le seguiamo come automi, senza
scomporci, che le ombre ormai le abbiamo digerite. Zero interazione. Peccato. Unico
sussulto il sassolino, quasi un pezzetto da mosaico o puzzle di pietra, che il
duo svizzero ci fa ritrovare nelle scarpe, che all’entrata nel gioco di ruolo
avevamo lasciato sulla soglia, come per la preghiera in moschea. Qui, qui
soltanto la realtà cruda, appuntita e solida come solo un sassolino pungente sa
essere, batte cassa e frizza tra il piede e la tomaia ricordandoci che fuori è
ancora più buio e che qui stavamo scherzando. Potevano sicuramente osare di
più. Fumo per il “Bestiale
Improvviso” dei Santasangre e nero misterico, che sa di creazione, ne lo “Stato
di grazia” dei Plumes dans la tete. A confondere, a mascherare, a non far trovare,
nella perdita dell’oggi, il domani, per adesso, non ci è dato di vederlo. Tutto
rimane in superficie, la patina di polvere, una crosta di attesa. Ancora nuvole
di ghiaccio secco sparate nelle narici per i manichini- robot de “La prima
periferia” dei Pathosformel che
ancora devono lavorare sul rapporto pupo-uomo, scardinando il Pinocchio,
annusando i Cuticchio. Il sonoro ci riporta all’ancestralità bigbeniana, di
gorgogli, grovigli, grugniti inumani, di difficile connotazione e collocazione.
Siamo all’anno zero? Vorremmo esserci? Lo provocheremo o lo stiamo solamente
registrando? Altro fumo, altra corsa con “Fortuny”
degli Anagoor.
Location spettrale ed evocativa la, perfetta per l’occasione, Chiesetta
dell’Angelo. Le panche scricchiolano, la magia prende atto attraverso questi
gladiatori, prima dell’incontro con la folla della fossa dei leoni, atleti
prima, nell’attesa spasmodica, dell’ingaggio, della pugna. Ancora avvolti dalle
tenebre nel rapimento di Rinaldi-Lanteri nel loro “Remixxx”,
carnefici con passamontagna da Comandante Marcos nel loro riassunto, resoconto,
ripercorso all’indietro dei migliori anni della nostra vita, dell’incresciosa
storia italiana. Siamo davvero noi, quelli? Questi passivi? Una piece perfetta
per quest’anno dove si festeggia, a ragione o a torto, i centocinquant’anni
dell’Unità d’Italia. Siamo anche il caso Moro o la sconfitta ai rigori nei mondiali
di calcio americani. Dai fatti, dalla bomba di Bologna, si misura il nostro
grado di integrazione, il nostro livello di patriottismo, il nostro sentirci
prodotti e frutti, fiori sdentati, provenienti dallo stesso humus, molto
fertilizzato a suon di palate di letame. Buio anche con le L.I.S.
(il loro lavoro ricorda sempre il loro Maestro Enrique Vargas)
che ci conducono in un museo, dividendoci attraverso mani sensuali e sguardi
altrettanto provocatori, ancelle e vestali tra gabbie e storie, dove il corpo,
i corpi, assumono le forme del loro contenitore tra eros e contrizione. Nero
indotto, solo per pochi, attraverso bendature e maschere carnevalesche, di
quelle pesanti e spesse di gomma, anche per i Fagarazzi
e Zuffellato che portano dieci attori
inconsapevoli (una vera fortuna essere stato tra quelli) sul palco, muovendoli
con ordini precisi e sul momento incomprensibili per poi ricomporre tutto nel
video finale, necessario per chi era automa con gli occhi incellofanati,
ridondante per il pubblico che si era già visto la scena in diretta. Insomma,
quando le parole finiscono e le immagini sono state tutte mostrate nella
pornografia accettata e sdoganata del presente, quando l’eccesso ha
travalicato, quando la bulimia ha preso il sopravvento, fuori e sopra il
palcoscenico, non rimane che rifugiarsi nella placenta di un silenzioso nero,
per perdere i confini e sentirsi, finalmente, battere qualcosa dentro. Un
ritorno.
Voto
7
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