Bilancio di Musiche in Scena
Programma del convegno per un nuovo teatro musicale
Arti sceniche: lo special di Scanner
Musiche in scena: un primo bilancio in tempo reale
Stefano De Martin: un confronto multidisciplinare
Massimo Marino: la musica, un cardine di rottura dei confini disciplinari
Giancarlo Cauteruccio: Musica delle mie brame
Fulvio Cauteruccio: come è nato Roccu u stortu
Renata Molinari: appunti per azioni in musica
Giordano Montecchi: oltre l'opera
Simonetta Pecini: riflettere per dialogare
Massimo Luconi: riflessioni sul teatro musicale
I percorsi di contaminazione tra rock e scena in Italia
Il ritorno del musical
Teatro Studio di Scandicci: Stagione teatrale 2002/03
Ico No Clast
Roccu u Stortu
La Tempesta
Koreja e Raiz: Brecht's Dance la danza del ribelle
Gogmagog: L'alba e la notte. Partitura
Kinkaleri: Tono
Kinkaleri: Otto
Teatrino Clandestino: Iliade
Di sicuro Roccu ‘u stortu di Francesco Suriano si è rivelato uno dei pochi spettacoli degli ultimi anni davvero capaci di evocare in maniera palpitante la tragedia della guerra. Il lavoro diretto e interpretato da Fulvio Cauteruccio raccontando un fatto storico della I° guerra mondiale (l’ammutinamento della brigata Catanzaro), svela lo smarrimento, l’adrenalina degli uomini che vanno incontro alla guerra. Musica e testo rendono l’atmosfera sferzante, dura, tragica. La voce muta tono di continuo, e il calabrese con i suoi fonemi scabri, duetta a meraviglia con un dinamico etno rock (eseguito dal vivo dal Parto delle Nuvole Pesanti) che conquista la scena, integra e amplia la narrazione.
Come è nato “Roccu u Stortu”?
Ho iniziato a costruire lo spettacolo nel giardino di casa, smontando e ricomponendo il testo e cercando di cucirmelo addosso. Ho tradotto il calabrese di Francesco Suriano nel mio cosentino, e poi ho reso più sfumato lo sdoppiamento tra la visione storica di Rocco soldato (in italiano) e la visione di Rocco uomo di paese (in dialetto). Così lo sfogo furente e l’attacco viscerale di Rocco, uomo libero, anarchico e povero, contro la Grande Guerra sono anche lo sfogo e l’attacco contro la propria battaglia quotidiana per la sopravvivenza.
Una combriccola di calabresi ha lavorato su una lingua difficilmente comprensibile ai più. Quale è stata la reazione del pubblico in giro per l’Italia?
Il calabrese è un dialetto forte e incisivo, alle volte aspro e alle volte insospettabilmente dolce. La forza vitale e la ricchezza di termini e sfumature lo rendono musicale e Rocco, servendosi di proverbi e filastrocche, riesce a trasmettere suoni e coloriture che si combinano in un idioma contemporaneo. Il carattere fortemente onomatopeico dà vita a una forma “altra” di comprensione.
In novanta repliche le reazioni del pubblico sono state differenti: al nord ha funzionato meglio perché è stato recepito come un omaggio a una cultura territoriale, a delle tradizioni ai margini rispetto al panorama teatrale più consumato; l’emozione è stata maggiore perché la forza del dialetto risulta più dirompente. Al sud forse è stato recepito come un semplice spettacolo in vernacolo.
C’è tanto della tua terra al di là della lingua e delle vicende narrate?
Lo spettacolo l’ho provato pochissimo, ce l’avevo nel sangue e ci sono cresciuto dentro, racconta la mia storia, quella della mia gente. I calabresi di allora, come quelli di ora, soffrono la povertà di infrastrutture, di mezzi e opportunità e vivono perennemente nella volontà del riscatto. Hanno energia e vitalità e cercano di veicolare verso l’esterno le risorse in modo diretto e alle volte un po’ aggressivo.
Come è nata la collaborazione con Il Parto delle Nuvole Pesanti?
Ero in treno e stavo leggendo un articolo sul gruppo calabrese e si parlava di tarantella punk. Ho pensato che avrei voluto incontrarli. Poi sono venuti a vedere “Finale di partita”, ci siamo conosciuti ed è scoccata la scintilla. Abbiamo passato molte serate insieme, tra il goliardico e il progettuale, e siamo prima di tutto diventati amici. L’idea di “Roccu” in bilico tra teatro e musica ha preso sempre più corpo e il furore creativo di Peppe Voltarelli a un certo punto è diventato incontenibile. Nello spettacolo ci sono due pezzi del loro repertorio, che si adattano perfettamente alla vicenda e alla tensione emotiva, e poi tutte composizioni originali.
Teatro e musica: attrazione fatale?
Io provengo da una famiglia di musicisti, la musica è sempre stata molto importante nella mia vita come nella mia professione. In “Roccu” la musica è fondamentale per lo sviluppo narrativo al pari della parola. Le due arti sconfinano l’una nell’altra, si contaminano, appropriandosi di un terreno comune che è il corpo in scena, la narrazione, la musicalità del linguaggio, l’armonia dell’unità e il suo contrario, il dialogo serrato tra l’attore che narra e i musicisti che “controcantano” l’azione, il cono di luce che illumina l’uno e poi gli altri in un gioco continuo delle parti che dona un ritmo in cui tutto si confronta e si ridefinisce.
Io dal linguaggio musicale ho imparato il ritmo applicato alla parola e alla struttura della narrazione, i musicisti hanno imparato dal teatro il rigore e i tempi della parola. Lo scambio e l’interazione tra le due arti sono totali, non c’è parola in funzione della musica, né musica in funzione della parola. Attrazione sì, e tanta, ma certamente non fatale.
E poi, la musica de Il Parto trasuda profumi della nostra terra…
Voto
8