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  05/12/2024 - 11:45

 

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Scanner - interview
 


Fulvio Cauteruccio
Il teatro musicale di Roccu u stortu
La tragedia della guerra, evocata dal dialetto calabrese e dall'etno rock del Parto delle nuvole pesanti e musica
Convegno Musiche in scena per un nuovo teatro musicale, Al Teatro Studio di Scandicci, sabato 29 marzo 2003

 

                      di Simona Nordera



Bilancio di Musiche in Scena
Programma del convegno per un nuovo teatro musicale
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Massimo Luconi: riflessioni sul teatro musicale
I percorsi di contaminazione tra rock e scena in Italia
Il ritorno del musical
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Ico No Clast
Roccu u Stortu
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Kinkaleri: Tono
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Di sicuro Roccu ‘u stortu di Francesco Suriano si è rivelato uno dei pochi spettacoli degli ultimi anni davvero capaci di evocare in maniera palpitante la tragedia della guerra. Il lavoro diretto e interpretato da Fulvio Cauteruccio raccontando un fatto storico della I° guerra mondiale (l’ammutinamento della brigata Catanzaro), svela lo smarrimento, l’adrenalina degli uomini che vanno incontro alla guerra. Musica e testo rendono l’atmosfera sferzante, dura, tragica. La voce muta tono di continuo, e il calabrese con i suoi fonemi scabri, duetta a meraviglia con un dinamico etno rock (eseguito dal vivo dal Parto delle Nuvole Pesanti) che conquista la scena, integra e amplia la narrazione.

Come è nato “Roccu u Stortu”?
Ho iniziato a costruire lo spettacolo nel giardino di casa, smontando e ricomponendo il testo e cercando di cucirmelo addosso. Ho tradotto il calabrese di Francesco Suriano nel mio cosentino, e poi ho reso più sfumato lo sdoppiamento tra la visione storica di Rocco soldato (in italiano) e la visione di Rocco uomo di paese (in dialetto). Così lo sfogo furente e l’attacco viscerale di Rocco, uomo libero, anarchico e povero, contro la Grande Guerra sono anche lo sfogo e l’attacco contro la propria battaglia quotidiana per la sopravvivenza.
Una combriccola di calabresi ha lavorato su una lingua difficilmente comprensibile ai più. Quale è stata la reazione del pubblico in giro per l’Italia?
Il calabrese è un dialetto forte e incisivo, alle volte aspro e alle volte insospettabilmente dolce. La forza vitale e la ricchezza di termini e sfumature lo rendono musicale e Rocco, servendosi di proverbi e filastrocche, riesce a trasmettere suoni e coloriture che si combinano in un idioma contemporaneo. Il carattere fortemente onomatopeico dà vita a una forma “altra” di comprensione. In novanta repliche le reazioni del pubblico sono state differenti: al nord ha funzionato meglio perché è stato recepito come un omaggio a una cultura territoriale, a delle tradizioni ai margini rispetto al panorama teatrale più consumato; l’emozione è stata maggiore perché la forza del dialetto risulta più dirompente. Al sud forse è stato recepito come un semplice spettacolo in vernacolo.
C’è tanto della tua terra al di là della lingua e delle vicende narrate?
Lo spettacolo l’ho provato pochissimo, ce l’avevo nel sangue e ci sono cresciuto dentro, racconta la mia storia, quella della mia gente. I calabresi di allora, come quelli di ora, soffrono la povertà di infrastrutture, di mezzi e opportunità e vivono perennemente nella volontà del riscatto. Hanno energia e vitalità e cercano di veicolare verso l’esterno le risorse in modo diretto e alle volte un po’ aggressivo.
Come è nata la collaborazione con Il Parto delle Nuvole Pesanti?
Ero in treno e stavo leggendo un articolo sul gruppo calabrese e si parlava di tarantella punk. Ho pensato che avrei voluto incontrarli. Poi sono venuti a vedere “Finale di partita”, ci siamo conosciuti ed è scoccata la scintilla. Abbiamo passato molte serate insieme, tra il goliardico e il progettuale, e siamo prima di tutto diventati amici. L’idea di “Roccu” in bilico tra teatro e musica ha preso sempre più corpo e il furore creativo di Peppe Voltarelli a un certo punto è diventato incontenibile. Nello spettacolo ci sono due pezzi del loro repertorio, che si adattano perfettamente alla vicenda e alla tensione emotiva, e poi tutte composizioni originali.
Teatro e musica: attrazione fatale?
Io provengo da una famiglia di musicisti, la musica è sempre stata molto importante nella mia vita come nella mia professione. In “Roccu” la musica è fondamentale per lo sviluppo narrativo al pari della parola. Le due arti sconfinano l’una nell’altra, si contaminano, appropriandosi di un terreno comune che è il corpo in scena, la narrazione, la musicalità del linguaggio, l’armonia dell’unità e il suo contrario, il dialogo serrato tra l’attore che narra e i musicisti che “controcantano” l’azione, il cono di luce che illumina l’uno e poi gli altri in un gioco continuo delle parti che dona un ritmo in cui tutto si confronta e si ridefinisce. Io dal linguaggio musicale ho imparato il ritmo applicato alla parola e alla struttura della narrazione, i musicisti hanno imparato dal teatro il rigore e i tempi della parola. Lo scambio e l’interazione tra le due arti sono totali, non c’è parola in funzione della musica, né musica in funzione della parola. Attrazione sì, e tanta, ma certamente non fatale. E poi, la musica de Il Parto trasuda profumi della nostra terra…

Voto 8 

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