Una
carriera solista ormai trentennale quella di Lou Reed, dall’esordio con l’omonimo LP
giusto nel 1970 fino ad Ecstasy, il suo ultimo disco: una
carriera iniziata con l’esperienza d’avanguardia dei Velvet Underground, band
newyorchese capeggiata da Reed e John Cale, passata alla storia con soli
due album sulla fine degli anni Sessanta. In un certo senso la musica di Lou Reed da
allora non è mai cambiata, ad ogni nuovo album il cantautore di New
York (il suo capolavoro indiscusso) ha continuato ad andare avanti per
la propria strada di onesto, coerente e discontinuo cantore metropolitano,
rigorosamente rock. Non a caso anche ai fans più assidui
dell’artista americano, ubicati in gran maggioranza proprio nella vecchia
Europa, è più volte balzato in mente che Lou Reed stia proponendo loro la
stessa musica da sempre. Il che è vero in parte: il cantante
newyorchese sa esprimersi così, tout court, e nemmeno riesce a far
sempre centro, ma è quel che gli succede stavolta nei quattordici brani per
quasi ottanta minuti di musica di Ecstasy, che nulla aggiunge
alla carriera di Lou Reed, ma molto conferma in positivo. L’apertura dell’album
è affidata a Paranoia key of E, probabilmente il brano più convincente e
contagioso dell’intero disco sotto il versante ritmico. Seguono a ruota altre
piccole gemme di Ecstasy:
la deliziosa ed umbratile Mad, la malinconica title track,
l’elegante Tatters. Poi arriva la dirompente Future farmers of
America, dinamica sotto il profilo compositivo e genuinamente rock,
una canzone che il
Bowie di venticinque anni fa avrebbe senz’altro gradito: e, tanto per
dimostrare che in Ecstasy, gli riescono pure i cambi di registro,
dopo questo riuscito (e convinto rock) segue il notevole country urbano
di Turning time around. Da segnalare anche la complessa Like a
possum e Big sky, l’ultima canzone della track list, davvero
tiratissima. Soltanto puro e semplice rock, ma di quello che va a segno
e migliora di ascolto in ascolto.
Lou Reed, Ecstasy [Reprise 2000]
Voto
7
|
 |
|