Un fluido volo, tra pulsazioni dub ed atmosfere ambient, è il nuovo
album di Deadbeat, Wild Life Documentaries (Scape/Audioglobe).
Esponente di spicco della scena elettronica canadese di Montreal dal 1998,
Scott Montheit, alterego reale di Deadbeat, ama le radici del
sound più ipnotico, che si materializzano nel dub, nei lunghi riverberi
e nelle atmosfere tipicamente ampie della ambient.
L'etichetta di Berlino Scape,
nata inizialmente per promuovere il sound elettronico e dub, già in precedenza
con il recente album dei
System ed ora con Deadbeat ritrova quella che è la sua root
stilistica originale.
Molte sono le contaminazioni elettroniche che la stessa Scape produce in questi
anni, tuttavia con Wild Life Documentaries rivolge l'attenzione ad un
suo ipotetico passato, per scoprire semplicemente che tale non è.
Il dub di Deadbeat, con le sue ritmiche downbeat piacevolmente ipnotiche
e con le atmosfere coinvolgenti giocate tra riverberi e tappeti sonori di
tastiere, profuma di attualità ed evidenzia quanto copiosa sia ancora
la vena ispiratrice del dub.
I dieci brani di Wild Life Documentaries, nella loro estrema fluidità
e scorrevolezza, non risultano mai monocordi e contengono i segnali chiari di
tutte le tendenze ed influenze che il sound elettronico ha palesato in questi
ultimi anni, dal sottile rumorismo, al minimalismo vicino al nulla sonico, che
trova nelle opere di System e Jan
Jelinek due dei riferimenti più importanti.
Un trip che inizia con Open My Eyes that I May See, dalle atmosfere che
ricordano l'elettronica analogica di Schulze,
per finire con l'onirica Kezia, ricca di quel sottile rumorismo dalle
grandi capacità evocative.
Deadbeat ci propone un album lontano da esperimenti incomprensibili,
ma in grado comunque di legare in modo perfetto il passato del sound dub-ambient
al suo immediato futuro.
Voto
8.5
|
 |
|