Teatro del Carretto
Pinocchio
Da Carlo Collodi, adattamento e regia Maria Grazia Cipriani, scene e costumi Graziano Gregori, suono Hubert Westkemper, luci Angelo Linzalata. Con Giandomenico Cupaiuolo, Elsa Bossi, Giacomo Pecchia, Giacomo Vezzani, Elena Nene’ Barini, Nicolo’ Belliti, Jonathan Bertolai, Carlo Gambaro
Dal 6 al 10 febbraio 2008 al Fabbricone di Prato
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Un Pinocchio da adulti, non c’è che dire. La lirica di “Ridi Pagliaccio” accompagna le sequenze e le danze
boxistiche, ben proporzionate ed ovattate da interpreti che mettono autenticità
senza paradigmi o clichè usurati, reinventando non
tanto le figure dei personaggi ma quanto rendendo unica ogni forma delineandola con un linguaggio, o l’assenza di esso, (il
Gatto che fa fusa spaventose e la
Volpe muta) o con appigli scenici originali (come la Lumachina con un secchio
al posto della chiocciola), particolari usati per il tutto (la giacca è
Geppetto, il mare sono secchi vuoti). I rumori ancestrali, a tratti funerei, di sciagure e sconquassi, di
caverne strazianti, di urla e gemiti, ricorda la tragedia, ed infatti l’audio è
di Hubert Westkemper, tecnico
luminoso anche, tra gli altri, dell’“Elettra”
di De Rosa, che sceglie Chopin, Leoncavallo e Puccini per un lenzuolo sonoro che culla,
bolla di sapone, dentro l’anfratto del fumetto senza tempo. La scena è un’arena
ad anfiteatro. C’è violenza nelle relazioni. E nel segno di questa corrida, le
assi a scomparto sono tipiche della sabbia insanguinata sotto il solleone, sta
l’ego del Pinocchio (Giandomenico
Cupaiuolo elettrico ed iperattivo) del Carretto (regia di Maria
Grazia Cipriani), un burattino, se vogliamo,
ancora più egoista e stupido, che non attira certo simpatie al suo capezzale,
che fagocita il mondo attorno all’interno del suo bisogno di ascolto,
attenzione ed infine distruzione. Stiamo più dalla parte dello sconfitto
Lucignolo che non ha santi in Paradiso né commendatori a prenderne le difese.
Pinocchio è un “bamboccione” con le spalle coperte,
sempre con un asso nella manica per tirare il destino dalla sua parte. Le
maschere hanno un sinistro ed inquietante risvolto
animalesco, conigli macabri, scimmie aggressive, ma silenti nel trambusto del
piccolo ciocco di burattino urlante e irritante. Ed il
pagliaccio ride cercando le catene per poi lamentarsene, per poi fuggirne nella
falsa redenzione di un momento. Ma la salvezza non passa per la frusta, sarebbe
troppo semplice, la punizione non riabilita la coscienza ma
deteriora soltanto il corpo nell’adrenalina del prossimo errore.
E non c’è cane alla corda, impiccagione né squalo a togliere
il maligno, né asini, né grilli, né fatine a regalare il perdono che è una
discesa personale negli Inferi dell’esistenza. Ma il
pagliaccio ride, ed allora “vesti la giubba, e la faccia infarina, la gente
paga e ridere vuole qua”. E lui, incurante, “ride del duol che gli avvelenare il cor”.
Voto
7 +
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