Odissea
Testo, luci e regia di César Brie
Con Mia Fabbri, Alice Guimaraes, Lucas Achirico, Cynthia Callejas, Gonzalo Callejas, Karen May Lisondra, Paola Oña, Ulises Palacio, Juliàn Ramacciotti, Viola Vento, scene: Gonzalo Callejas, musica Pablo Brie, costumi Giancarlo Gentilucci, Teatro de los Andes, direzione musicale Lucas Achirico, durata: 2 h 30’
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Gli zingari non hanno terra.
Gliel’hanno tolta, distruggendola, depauperandola.
Avevano una patria. Adesso è lontana. Sono stati costretti ad andarsene, a
fuggire, a cercare quello che era impossibile trovare nel posto chiamato
“casa”. Gli emigranti sono diventati apolidi. Indesiderati,
sradicati, a metà strada tra il domani e il passato, tra l’andare per non
morire di fame e la voglia di tornare. Non sono diventati cittadini a
pieno titolo, non sono diventati americani o europei o italiani, non sono più
ciò che erano. Sono e restano stranieri, visti come possibili minacce, nel
limbo di fazzoletti bianchi e lavoro nero. Ma la
faccia li tradisce. La povertà, la fame, gli stracci, l’analfabetismo li
condannano. E per loro, nella maggior parte dei casi, non c’è salvezza, né redenzione, ma sofferenze sommate ad altri dolori: il
distacco dai cari, dai familiari, quel benessere cercato come chimera e
miraggio è rimasto solo sulla carta del “Sogno Americano>”.
Di tutti gli emigranti parla Cesar Brie nel
suo caldo e colorato, molto sudamericano, “Odissea” (dopo l’“Iliade” di dieci
anni fa), che alterna momenti di pura ilarità e contraddizioni
storiche ad altri compassionevoli e toccanti in un’altalena tra commozione e santità.
Rimangono i nomi dell’epopea di Ulisse e Penelope e Telemaco, ma vengono aggiunti particolari della modernità, dai costumi,
all’uso dei cellulari. La scena è povera, ma efficace,
attrezzata con canne di bambù che si aprono come sipario o si chiudono come
colonne, a formare stanze separate per una recitazione
su più piani a livelli diversi, l’ora ed il ricordo oppure la spazialità
differente ma contemporanea, ma dalle mura visibili, o a raccogliersi e
lasciare il campo spazioso dove inscenare anche bellissime e coreografiche
lotte da capoeira. E’ una compagnia cosmopolita e
multilingue quella di Brie, il
Teatro de Los Andes con sede in Bolivia a Sucre:
sudamericani d’ogni dove, americani, italiani. Il problema è lo stesso: il
viaggio, l’andare, l’essere costretti a lasciare tutto e partire per cercare il
mancante nella più completa diffidenza, nella più cieca inimicizia, senza
sostegno, materiale e spirituale, senza supporto né solidarietà. Cesar dedica
la piece ai barconi affondati ed ai dispersi nelle
acque tra la Libia e Lampedusa: raggelante la scena con gli annegati che vomitano acqua dalle loro
bocche. I molti attori parlano un italiano buonissimo e fluido e sono bravi
nell’affrontare più ruoli. La rivisitazione è tanto paradossale quanto
azzeccata: Dei che parlano al telefonino, una Circe, prossima ad una prostituta, che attraverso il “cibo spazzatura” (Coca
Cola e hamburger) trasforma gli uomini in suini, Penelope gelosa delle amanti
del marito, in un continuo aggancio divertente al modernariato come i Proci
rappresentati in cravatta e camicia da veri manager rampanti e senza scrupoli,
Hermes è effeminato, Afrodite cantante anni ’20, Nausicaa
è sui trampoli, Telemaco che all’ospedale incontra feriti di Iraq, Bosnia,
Afghanistan, Polifemo è un boss che spaccia cocaina, Nestore che è un
paraplegico sbavante e epilettico con costante bisogno di cure e di badante. Gli Ulisse siamo noi, siamo stati noi, sono stati i nostri
antenati. Chi si sposta, chi si muove è per bisogno non per sollazzo o
solletico, non per curiosità, non per turismo o per scattare fotografie: “Non
c’è posto dove nascondersi, una volta nati”. Gli Ulisse, “il mio nome è nessuno”, provengono da tutte le
zone della terra, da ogni angolo, hanno nomi e volti differenti, ma storie simili
di tragedie alle spalle, e nella maggior parte dei casi, una felicità
irrealizzabile, un ricongiungimento familiare impraticabile nel loro futuro. Il
razzismo, la paura dello sconosciuto, l’ignoranza, la povertà, la xenofobia, le
ronde non possono essere sistemi validi né accettabili, ma anzi controproducenti,
per risolvere il problema. La piece è soprattutto un
attacco al capitalismo, ad una forma di governo mondiale basato sull’equazione incivile
che pochi, arroganti e presuntuosi e maleducati e bifolchi, abbiano molto e molti,
disperati senza giustizia, abbiano poco o addirittura niente. Si tocca con mano
la sofferenza come polvere e fotografie in bianco e nero e candele accese.
Voto
8
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