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  25/04/2024 - 15:21

 

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Compagnia Teatro dell’Argine
Liberata
Testo e regia di Nicola Bonazzi, costumi Cristina Gamberini. Con Micaela Casalboni, Andrea Gadda, Giulia Franzeresi, Frida Zerbinati
Al Teatro ITC Teatro di San Lazzaro (Bologna) dal 13 al 15 marzo 2009

 




                     di Tommaso Chimenti


Una favola noir allegorica che si dipana al gusto di un Luna Park ravennate, dalle risa sguaiate, ma sincere, dei giostrai, di una vita nomade, e ingenua e povera, con il mare come sfondo a muoversi e ondeggiare mentre sulla terra ferma tutto scorre immobile. Una fiaba metaforica, troppo spesso reale, da Barbablù quella della “Liberata” (Micaela Casalboni deliziosa e in stato di grazia) che prima riceve il miracolo di lasciare la condizione della zittellaggine, dal caro Gesù tanto pregato, poi viene liberata e salvata, seguendo alla lettera la leggenda cristiana della martire dalla quale aveva preso il nome, dalla causa dei suoi mali, quello stesso uomo portatore di una felicità momentanea e breve e illusoria. “L’uomo dei sogni” (Andrea Gadda è abilmente sentimentale e sprezzante), un rubacuori di provincia che vende cianfrusaglie e carabattole, playboy da tango e balera e valzer che non vale niente, che vende miseria perché miserabile, che accusa per insoddisfazione esistenziale, forte con i deboli, con le proprie donne devote. Una storia al femminile, un “Albero di Antonia” vessato e percosso, umiliato e schiacciato da un padre-padrone legittimato nel suo operato proprio da coloro che subiscono il suo atteggiamento: la seconda moglie e le due figlie di primo letto. Il testo, dal dialetto romagnolo ma universale nello svolgimento ed affatto locale, di Nicola Bonazzi è una dolce carezza alla quale segue sempre uno schiaffo gelido, è caldo e freddo, è tranquillità familiare con l’aggiunta di violenza inacidita e rancorosa, è sembianze d’abbracci ed affetto prima dell’avventarsi al collo come lupo mannaro. Si ride ed un attimo dopo ci si vergogna e pente d’aver riso. Una drammaturgia che non fa stare sereno lo spettatore: lo pungola, lo scuote, sembra che lo accolga e lo coccoli prima della sferzata nelle costole ponendogli davanti l’illogicità e l’irrazionalità di bisogni e dinamiche sadomasochiste. Tre donne che, in maniera diversa, lo guardano dal basso verso l’alto (Bambola di Patty Pravo), lo idolatrano come totem divino, lo amano ricevendone in cambio solo lacrime e punizioni, fisiche e psicologiche, in un continuo cortocircuito, in un costante collasso delle regole della convivenza, in un turbine di sensi di colpa e ingiustizie e silenzi e sorrisi omertosi racchiusi nelle quattro pareti domestiche dove questi tre corpi puniti e spolpati di vita vengono rinchiusi, legati, imbavagliati, violentati, vilipesi, senza più dignità né un briciolo d’affetto. La grata sul fondale, di assi e catene dove sono appesi disegni illusori da bambini, è limite, è orizzonte, come un pentagramma senza più note allegre e felici da suonare, è corde di ring e recinto per le bestie, sono grate ma anche finestre per guardare e desiderare e ambire ad un altro mondo. Un altrove che le tre donne non riescono nemmeno a concepire abituate a quella piccola o grande dose quotidiana di normale violenza subita, di veleno snocciolato a gocce cinesi che corrodono, che può andare dalla critica feroce all’abbigliamento o alla cura della casa o alla cucina della nuova moglie, all’incesto della figlia maggiore, chiamata con un nome da maschio che il capofamiglia voleva un uomo, alle umiliazioni pubbliche e private, ai tradimenti alla luce del sole, alla costrizione alla prostituzione (Casta Diva della Callas). Ma è una violenza quasi condivisa, accettata come unica alternativa di vita, una cantilena senza lieto fine, una filastrocca di ordini e promesse mai mantenute, di suddite pronte a tutto per esaudire i desideri del maschio dominante del branco, di regole da non disattendere, di schiave e serve inginocchiate e condannate alla più completa devozione, una venerazione tra timori di rappresaglie improvvise e non calcolate e paure di una cinghia portata in aria come domatore di fiere circensi, frustate e frustrate, emarginate e zittite. Tutto ruota attorno al possesso che esprime l’uomo, gallo impunito nel pollaio (il bravo, bravissimo del Barbiere di Siviglia) che tiene al guinzaglio le “sue” femmine. Una caduta all’Inferno, che la realtà supera sempre la fantasia.

Voto 8 

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