Stranamente, e casualmente, dicono, giurano, il debutto di questo psicodramma in salsa giostraia, va in scena nella settimana dove cade la
Festa delle Forze Armate. In una lingua visionaria, rispettata e ristabilita dalle scene trasognate da illusionisti, di botole e finestre e fontane e passaggi segreti, della giovane Vicini, il rumeno Matei Visniec (fuggito,
ed adottato in Francia, dal regime di Ceausescu) ci regala tre quadri claustrofobici, cupi, soffocanti non tanto sulla guerra ma sulla sua
inutilità, la stupidità del male e la battaglia vista con l’impotenza lucida di chi, volente o nolente, deve rimanere a casa e subire la lontananza, lo scempio della memoria, il logorio del tempo: le donne.
E gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere. Anche loro combattono, sono in prima linea, ma la loro trincea è senza sangue, senza corpo a corpo, senza bossoli lasciati a marcire in un campo, per questo il loro bellum
è ancora più lacerante e lancinante. Non avendo nemico contro il
quale scagliarsi non rimane che martoriarsi notte e giorno, sperando, pregando, cercando d’ingannare il tempo. Che non lo inganni mai. Aspettare sulla riva il cadavere dell’amato. Tre donne, tre loro uomini che partono per il fronte senza fare ritorno, lo stesso Messaggero cinico, freddo, distaccato, un
insensibile Arcangelo Gabriele al contrario che porta lettere di morte e non
parole di nascita, che gira con la lampada di Diogene, per cercare la ragione
che la guerra s’è mangiata o per scovare le sue prossime anime da
condurre nell’imo. Qui ambasciator porta pena. In una scena ricca di
valige, fuga, andare, scappare dall’orrore, che sembra di vedere Ellis Island o Lamerica o Nuovo Mondo, che pare di sentire sotto i denti la deportazione, la confusione di casse ed
imballaggi da cargo, una madre, una figlia, una moglie accolgono i loro uomini, quelli che loro credono che siano i loro corpi. Valige che sono sarcofagi e bare, che si aprono e diventano cimiteri di lucine e fotografie. Ma è un dialogo fatto di due monologhi che raramente si incontrano. Il grottesco prende il sopravvento tra le righe, il tragicomico strappa sorrisi al cospetto di altri sfortunati, che siano Woycezk o Svejk. Sullo sfondo questi cavalli rossi
che scrutano, seguono, che pensare a Samarcanda è un attimo, che sembra di
vederli con gli occhi fuori dalle orbite, le narici allargate, folli ed
irrazionali, istintivi e fuori controllo. Una madre, ad esempio, molto diversa
da quella di Francesca Mazza nell’episodio omonimo in “Spara, trova
il tesoro e ripeti” degli Artefatti da Ravenhill. Lì la donna,
accortasi del perché dell’arrivo dei Filippide della morte, non
lasciava parlare i due militari zittendoli senza mai nominare la parola
“morte” né “figlio”, quelle che lei non voleva
ascoltare. Qui Micaela Casalboni, un’altra prova intensa, cambia registro
in triplice fase: è una madre ossessiva, maniaca, agitata, nervosa, eccessiva, è una figlia premurosa, una moglie (commovente la sua rassegnazione) accondiscendente che asseconda la follia del coniuge nel ricostruire con le stoviglie, come in un plastico, gioco da tavolo o subbuteo, il campo di battaglia urlando “solo la morte ci rende forti”. Illusioni dei regimi, il cui motto è e rimane sempre “Armiamoci e partite”. I soldati non sono dipinti come eroi, piuttosto come carne da cannone, merce da macello, poveri diavoli mandati allo sbaraglio, “i
soldati sono ciechi e sordi”: sono morti con modalità comuni, casualmente,
inciampando, cadendo in maniera ingenua o in circostanze sfortunate, nel mezzo del fuoco nemico, calpestati. Nessun gesto straordinario gli è attribuito, nessuna parola altisonante (“Vi faccio vedere come muore un
italiano”?), nessuna fanfara, nessuno si è immolato. Non si sentono proferire né “patria”, né “onore”.
Di loro rimangono valanghe di stivali, e una grandissima disperazione. Che si chiami Grande Guerra, che si chiami Mondiale o soltanto Operazione di Pace.
Voto
8
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