"Tommy era lì davanti e sorrideva, ma
sul quel piatto di riso mi lasciava, per non farsi capire parlò dei denti e che
avevo bisogno di altri appuntamenti. Tommy non aveva niente da sognare,
aveva già passato tutto il suo avvenire nel suo giardino degli alberi incrociati dove i dolori non sono segnati”. (Roberto Vecchioni, “Tommy”).
Che delusione infinita. Verrebbe
da chiedere a Elio Germano:
“Perché?”, oppure “Ma chi te l’ha fatto fare?”. Il one man show, l’abbiamo capito, non è nelle sue corde, il
mattatore o ce l’hai nel sangue o non lo puoi improvvisare. La voce precaria,
incerta, certamente poco convincente. Non riesce ad affascinare con
quell’indecisione da falso perdente che non sa condurti nelle stanze di una
storia che non c’è, ma che a tratti mostra stralci poetici. Come affabulatore è
deficitario: se ne sta in disparte, si sgonfia in quel palco tutto solo aiutato
soltanto da una sedia, che non lo sorregge, e un dizionario. Vorrebbe anche
giocare con il pubblico che sbadiglia, tossisce di continuo, si chiede chi e
che cosa è venuto a vedere prendendosi la pioggia ed
il freddo di dicembre. Il racconto è surreale ma la nenia alla quale ci
sottopone Germano
è da denuncia al Wwf, come spettatori pronti ad una
prossima ed imminente estinzione. A teatro non conta soltanto il nome. Meno
male che dura soltanto un’ora. Ma è comunque un’ora
buttata, che nessuno ci renderà più. L’attore di N
di Virzì se ne sta
lì impalato, piazzato al centro, senza nerbo, senza coinvolgimento, senza
riuscire a passare il pathos, senza che
il filtro invisibile di separazione tra poltrone di velluto e assi di legno
magicamente cada. Se manca la sostanza, il sottotitolo della piece
è appunto “basato sul niente”, allora la forza espressiva attoriale deve
sobbarcarsi e soverchiare la tendenza naturale delle cose. Il pezzo di Will Eno
ha in sé qualcosa, di tremendo, cinico e triviale, crudo e normalmente efferato,
che ricorda alcune pagine di Palanhiuk.
Tenta di interagire con la platea che è distante, lontana, fredda: i silenzi si
moltiplicano, l’imbarazzo è palpabile, la noia aleggia come un avvoltoio. Le carcasse cadranno di lì a poco, stramazzate al suolo. Non ha carisma, non ha le redini della drammaturgia, non riesce a tenerci incollati. Ecco, certamente non è Filippo Timi, per citare un nome a caso. Forse il cinema è più semplice, più facile. Un brutto tonfo, una rovinosa caduta per l’attore, anche front man di un gruppo hip hop
arrabbiato da centro sociale, palma d’oro a Cannes per La nostra vita di
Lucchetti. Il gioco non è riuscito, ma qualcuno dice “Ma il teatro era pieno”.
Sono queste le operazioni commerciali che allontanano la gente dal teatro. Non
pochi hanno dormito. Gigioneggia con una ragazza della prima fila, vuol fare il complice con una platea che sospira profondamente aspettando di tornarsene a casa e maledicendo l’entusiasmo con il quale ha acquistato il biglietto. Non è il Piccolo Principe che cita, non è il Pifferaio Magico. Molti abbozzano sorrisetti di maniera, di cortesia, altri sono presi da attacchi di riso isterico esagerato alla minima battuta dopo minuti di vuoto da suicidio. Chi ha dormito, poi alla fine, si segnala tra quelli che applaudono più forte, che si spellano le mani con più gioia e convinzione. Ma il pubblico, si sa, non ha il coraggio di dissentire. Ha paura e quindi obbedisce
all’uomo sul palco rialzato. La massa ha ancora bisogno dell’uomo forte. E’ molto più semplice così, annoiarsi, alzarsi, prendere il cappotto e tornare mesti nella propria cuccia. Nessuna notizia, nessuna cattiva notizia. Vivere alla meno. “Che il pubblico è ammaestrato e non ti fa paura”, diceva mille anni fa Guccini. Cercare lo zero a zero, senza sporcarsi la maglietta. Per lo zoccolo duro di ragazze accorse a vedere “l’attore” bastava essere nello stesso spazio fisico con Germano, respirare la sua anidride carbonica. Quindi non fanno testo gli urletti finali. Credo che ci debba essere qualcosa in più.
Voto
4
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