"Viva la mamma affezionata a quella gonna un po' lunga così elegantemente anni cinquanta, sempre
così sincera, indaffarata sempre e sempre convinta, a volte un po'
severa" (Edoardo Bennato).
Dentro un cubo nero, il buio
viene tagliato da un tessuto trasparente pece che fraziona e frantuma la visuale. Non ci permette di entrare, di infilarci dentro. La scena di
“A.” è sfumata, opaca, ancor più rabbuiata. Un figlio e due madri. E’ la condizione dei figli adottivi. Un terreno scivoloso dove gli Straligut si sono incamminati, inciampando ed impantanandosi, ma era inevitabile, nel fango di un tema tanto aperto quanto caldo ed in fermento. Forse bisogna soltanto essere donne per poterlo capire a
fondo, in ogni sua sfumatura. Del maschio, del padre, adottivo o biologico, nessuna presenza, nessuna pennellata, nessun tratteggio, come se l’essere figlio sia soltanto appannaggio dell’utero. Sul piatto cinque televisori
usati come schermi che richiamano subito alla mente schermi da ecografie. Se ne scorge il dolore, l’indicibile sofferenza, la contrizione. Non vengono infatti sfruttate a pieno le potenzialità di un oggetto- simbolo –feticcio come il tubo catodico, limitando la sua azione soltanto a
passaggio dei titoli dei successivi capitoli della saga.
Nello spettacolo, che ha inaugurato
l’edizione 2010 della rassegna TeatrInScatola, tutto è talmente soffocante, angosciante, angoscioso e claustrofobico
che ci chiediamo se il messaggio finale e di fondo, ma neanche troppo implicito, sia che l’essere adottati sia un guaio ed un danno peggiore che l’essere lasciati in un orfanotrofio. Sembra di essere alle prese con
uno scontro tra genitorialità adottiva e biologica (echi da “Venuto
al mondo” di Margaret Mazzantini). Già la costruzione
dell’impianto sul palco della Lia Lapini è identificativo e categorico. Il box, la scatola dove agiscono i tre attori è, non a caso, un cubo con angoli e spigoli tagliati, di teli, tende, lenzuola, scompartimenti. Un’altra frizione rispetto alla rotondità di una pancia tesa e levigata in gravidanza. Qui, dentro questi schemi punteggiati e tratteggiati da segni netti, ambiguità tracima, sorvola, si spande. Il figlio cerca di
rintracciare scampoli e briciole del suo passato attraverso l’ascolto di cassette, citando Beckett e “L’ultimo
nastro di Krapp”. Il conflitto tra la madre “vera” e
quella “adottiva” si fa sempre più presente e pressante fin
quasi ad arrivare ad un aut-aut. Il figlio, paradossalmente, mette sul piedistallo, issandola su un palchetto ideale, la madre naturale facendola divenire un’icona, un modello quasi irraggiungibile, una Madonna da
pregare ingigantita e gigantesca, velata e vestita da sposa eterna in bianco,
vergine e pura (vengono ala mente le spose tragiche di Emma Dante o Michela Cescon nella Giulietta di Malosti). La ricostruzione di un’identità passa da questo scoglio e confronto, senza conforto, ma tutti ne escono
perdenti: la madre che lo ha allevato viene messa in disparte, come se fosse una colpa non averlo partorito come carne della sua carne, piccola e
nell’ombra, la madre reale è un sogno che si sfalda e si liquefa e niente più, è quello che il figlio avrebbe voluto che lei fosse stata, il figlio è Ulisse che brama una destinazione, un riparo, un
porto sicuro dove approdare, delle risposte accoglienti ed invece viene scaraventato in nuovi dubbi e domande senza alcuna plausibile risposta. Il ragazzo viene tirato nelle contraddizioni delle due donne, non scegliendo, non
potendolo fare, rimanendo così a metà strada sulla via della
risoluzione e della felicità. “Chi sono?” resta ancora a pulsare. Ma il ritmo manca, l’attenzione e la partecipazione del pubblico non fluiscono, il testo sta sospeso in un limbo poetico con poche attinenze
alla realtà, minimi appigli alla contingenza. I sospetti sul lavoro si
acuiscono non riuscendo a decifrare, capire e decodificare il punto di vista che muove l’azione e l’urgenza: se è il figlio in un percorso a ritroso nei propri geni, se sono le due donne drammaticamente ed infelicemente in competizione, litigandosi, silenti, la loro misera condizione
di donne a metà, non per scelta propria. Tutto è ammantato non di sogno ma d’incubo, di paura, di attesa, di angoscia, non si rileva nessun segno positivo della maternità: la gioia, la meraviglia, il piacere sono cancellati in questa messa in scena, come se il diventare genitori, seppur
adottivi, equivalga ad una maternità secondaria o di serie b, comunque faticosa. Le luci sono flebili e passive, non se ne intravede la via d’uscita. Diogene ha spento la sua lampada e da dentro non si trova, nel
buio, l’uscita d’emergenza.
Voto
7