I N D O E U R O P E A N . M U S I C . E N S E M B L E
 
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S T A M P A

 

Non è facile imbattersi in un'atmosfera così leggera e intimista. Carlo Gatteschi è riuscito a creare il mitico e leggendario mondo orientale, attraverso una musica diversa, lontana ma allo stesso tempo anche così vicina ai sentimenti dell'uomo occidentale.
Con Ikram Khan al sarangi, Alberto Capelli alla chitarra. Hanif Khan alle tabla, Gatteschi insieme al suo sax ha trionfato nel ritmo di un suono pulito e sottile, che mentre incanta per la raffinatezza del linguaggio, sbalordisce per l'armonia delle rifiniture. Certo, il clima è a noi completamente sconosciuto, ma non è difficile poi farsi coinvolgere dalla dolcezza dell'India: un'esperienza nuova che affascina lo spettatore e lo invita in un viaggio fantastico…
Mara Varoli, GAZZETTA DI PARMA, 10-1-1998

…l'Indoeuropean Music Ensemble, applaudissimo connubio all'insegna del rispetto e della più imprevedibile armonia fra due culture musicali. Così lontane eppure così vicine: una lezione sublime già pronta ad essere replicata dal vivo e anche su disco.
LA NAZIONE, 7-8-1998

  UN NUOVO ANTICO AMORE
tra raga indiano e jazz contemporaneo
Intervista a Carlo Gatteschi a cura di Pietro Carfì (estratto)

In tredici anni di attività autoprodotta, autofinanziata e autorganizzata Carlo Gatteschi e il suo Gezz Zero Grup sono stati paragonati al Prime Time di Ornette Coleman, ai Material di Bill Laswell, al Miles Davis elettrico, a Frank Zappa, a Steve Lacy e ad altri portenti della musica novecentesca statunitense o del "giro" sperimentale europeo.
Ma per quanti paragoni, paralleli, paradigmi si possano scovare, il flusso sonoro del Gezz Zero Grup rimane ineffabile, sempre in movimento, in trasformazione, in rigenerazione... l'Indoeuropean Music Ensemble, all'esordio ufficiale con la pubblicazione di Gandharva trova qui una svolta progettuale, nelle intenzioni e nella concretizzazione.
Ikram Khan (sarangi), Deobrat Mishra (sitar), Hanif Khan (tabla), Alberto Capelli (chitarra), Carlo Gatteschi (sassofoni) - coadiuvati episodicamente da altri compagni - hanno preso le mosse da ciò che poteva unirli, piuttosto che dividerli: la comune radice indoeuropea, l'alternarsi di composizione ed improvvisazione, l'equilibrio tra emozione e riflessione.
I raga sono stati arrangiati dagli italiani, i brani degli italiani li hanno arrangiati gli indiani: ognuno ha parlato il linguaggio del proprio strumento ed è stato latore di culture e tensioni diverse.
Piuttosto che una fusione a freddo, un'alchimia, Gandharva ci sembra un'incontro ragionato e tuttavia spontaneo, quasi naturale.
Un originale episodio di musica world, o come la volete chiamare...

Che bisogno c'era dell'Indoeuropean Music Ensemble?

"Non c'era, ovviamente, nessun "bisogno" dell'Indoeuropean:
i progetti di tanti musicisti non nascono per bisogno, ma per piacere, il piacere di suonarli, di fare qualcosa di cui essere orgogliosi, contenti di se stessi, coerenti con i propri gusti, ti direi anche per ascoltare dalla voce del proprio gruppo quella musica che ancora non esiste ma che vorresti ascoltare, che so, per radio o andando per caso in un locale.

Sono i commercianti che "hanno il bisogno" di vendere un determinato prodotto, perchè prevedono le intenzioni dei possibili acquirenti.
Ho suonato con musicisti italiani sia di provenienza rock che jazz, popolare, di liscio e di musica sinfonica - come succede direi anche per caso: qualcuno ti chiama, amici, conoscenti. Poi con europei, con sudamericani in Italia e in Sudamerica, con africani, poi con americani come James White (ora si fa chiamare Chanche) and the Contorsions, il violoncellista Tristan Honsinger, il poeta John Giorno.

All'università ho studiato musica e antropologia culturale ed ero da anni interessato alla cultura, all'arte ed alla filosofia indiana.
Desideravo da tempo approfondire la mia superficiale conoscenza del mondo indiano: vivere dall'interno il mondo della cultura indiana, pensare di poter parlare di filosofia, di arte, di musica con bramini, con grandi maestri, con grandi musicisti è stato un sogno, più che un desiderio, come per un ladro entrare a Fort Knox, un azzardo, un grande onore che sai che la vita ha destinato a pochi e che poi è toccato proprio a me.
Se per molte mie esperienze posso dire che ci siano state delle circostanze casuali a determinarle in gran parte, allora ti dico che i musicisti indiani me li sono cercati e che su questo progetto ho fantasticato, pensato, e poi progettato a lungo prima di incontrare i musicisti e suonare con loro.

Con Alberto Capelli, mio compagno chitarrista anche nel gruppo elettrico, il Gezz Zero Grup, durante gli spostamenti in furgone nelle tournée (un vecchio Volkswagen con quattro posti letto) abbiamo letto diversi libri di filosofia, tra i quali anche molte parti dei Veda, i libri sacri e fondamentali dell'induismo.
Insieme avevamo progettato di andare in India col furgone attrezzato da studio mobile di registrazione, in modo da incontrare, suonare e registrare con musicisti greci, turchi, persiani, pachistani e, dulcis in fundo, indiani; un percorso alla Alessandro Magno o alla Marco Polo, ma con gli strumenti musicali, alla ricerca di un "Linguaggio Universale" della nostra vecchia cultura indoeuropea di prima dell'avvento dell'Islam, che ha un po' fatto da tappo per il continuum dello scambio indoeuropeo.
Poi, sommersi dalle difficoltà organizzative ed economiche, io ho preso l'aereo e il Capelli è rimasto a casa.
Quindi ho cercato musicisti indiani disposti a suonare con me, in un progetto comune che ipotizzasse l'esistenza di una cultura, una affinità indoeuropea, un progetto che si avvantaggiasse di grande fiducia e pazienza da parte degli stessi musicisti, impegnati a comporre e ad arrangiare insieme la musica.
Piano piano la cosa è partita, in quartetto con contrabbasso, tabla, sax e sitar, fino a contare stabilmente su sitar, sarangi, tabla più gli italiani, a partire dalla chitarra arrivando poi al quartetto elettrico del Gezz Zero Grup, col basso e la batteria.

Ma è il contenuto del progetto, che nella musica è la cosa più importante, che mi sta particolarmente a cuore. Una cosa che mi aveva affascinato subito, oltre naturalmente alla forma musicale ed ai suoni, era proprio il dover riferire ogni raga (il "brano" della musica classica indiana) ad argomenti specifici, i nove sentimenti (amore, gioia, disgusto, rabbia, meraviglia, tristezza, pace, devozione, malinconia), oppure a manifestazioni della natura (notte, pioggia, tramonto, eccetera). In Occidente, nel secolo che è appena trascorso, si è giunti in tutte le arti all'astratto, al distacco progressivo da un reale sempre più fonte di paure e di incertezze piuttosto che di ispirazione. I conflitti disastrosi del Novecento avevano portato la gente e gli artisti a nascondere i sentimenti, ma appena prima di queste catastrofi Beethoven aveva scritto la Sonata per la Luna, l'Appassionata, l'Eroica, Mahler compone musica riferendosi ai sentimenti che suscita l'idea delle morti di bambini neonati, Schoenberg descriveva i sentimenti di due amanti quando lei dice a lui che aspetta un figlio da un altro: i compositori occidentali avevano verso la natura un atteggiamento assai simile a quello indiano verso l'arte, l'uomo e la natura.
Sentendo poi che il pane tondo in India si chiama "roti" e che camicia si dice "camich" e soprattutto andando quattro volte in India e sentendola vicina nel profondo, mi sono convinto che le nostre radici culturali affondino dal Mediterraneo all'Oriente e che questo nostro status di colonia culturale, prima tedesca e poi americana, non possa impressionarci più di tanto.
Dunque, come vedi, sono proprio convinto che esistano nessi profondi tra queste culture e mi affascina il progetto dell'I.M.E. perchè non è solo un accostamento formale di un sax e un sitar.
Parliamo di cose che ci premono molto, con rappresentanti di una cultura che ha studiato l'uomo profondamente e in modo diverso dal nostro. Per quel che riguarda il modo di suonare, essendo noi italiani per lo più jazzisti o comunque improvvisatori, ci siamo trovati in perfetta sintonia con grandi improvvisatori come loro.
Non leggono la musica e io non ho mai gradito gli spartiti sul palco, bisogna pensare, progettare, parlare, suonare e ascoltare o ascoltare e suonare. Andiamo d'accordissimo!...."

N° 44 WORLD MUSIC, settembre 2000